Il consenso informato a un intervento chirurgico o ad un trattamento terapeutico che deve essere richiesto e acquisito dal paziente riveste un’importanze fondamentale, è parte integrante della cartella clinica e una sua alterazione da parte dei sanitari configura il reato falso materiale aggravato trattandosi di un atto pubblico, “fidefacente”.
Lo ha ribadito la Cassazione, quinta sezione penale, con la sentenza n. 4803/23 depositata il 3 febbraio 2023 con la quale ha confermato la condanna di un medico.
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Chirurgo condannato per falso materiale aggravato per alterato un consenso informato
Il tribunale di Udine aveva condannato un chirurgo per il reato di cui all’art. 476, commi 1 e 2 del codice penale (falsità materiale aggravata commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici) per avere alterato – nella sua qualità di medico in servizio presso il reparto di Chirurgia plastica dell’ospedale cittadino – il modulo sottoscritto da un paziente di consenso informato all’intervento, atto “fidefacente” in quanto parte integrante della cartella clinica, apportandovi successivamente alla sua formazione svariate aggiunte. Sentenza sostanzialmente confermata anche in secondo grado, nel 2021, dalla Corte d’Appello di Trieste, che aveva riformato la decisione di primo grado unicamente riconoscendo all’imputato il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Il sanitario tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione, sostenendo che la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 476 cod. pen., asserendo al riguardo che la presunta falsità sarebbe stata apportata nel modulo relativo al consenso informato, firmato dal paziente e controfirmato dal medico, che, secondo la tesi difensiva, pur facendo parte della cartella clinica, non avrebbe la qualità di atto fidefacente.
Secondo il medico, non tutti i documenti inseriti nella cartella clinica assumerebbero la qualità di atti fidefacenti, ma solo quelli che attestano fatti espletati nel corso della terapia o dell’intervento chirurgico. Il dottore, inoltre, ha evidenziato come i fatti contestati risalissero al 2008 e cioè a un epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 219 del 2017 che, all’art. 1, comma 4, aveva imposto la forma scritta per la manifestazione del consenso: al momento dei fatti era vigente la legge n. 145 del 2001, di ratifica della convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, che, pur prevedendo all’art. 5 la centralità del consenso informato, non prevedeva ancora alcuna forma particolare per il suo rilascio, ben potendo questo essere raccolto anche oralmente.
In considerazione della forma libera con la quale all’epoca poteva essere rilasciato il consenso, a parere del ricorrente, nel caso di specie mancherebbe uno dei requisiti richiesti dall’art. 2699 cod. civ. per attribuire all’atto pubblico la natura di atto fidefacente. Pertanto, una volta venuta meno l’aggravante, il termine massimo di prescrizione applicabile al reato contestato sarebbe sceso a sette anni e mezzo, con conseguente estinzione di quest’ultimo sin dal 15 giugno 2016, ossia in data anteriore all’udienza preliminare tenutasi davanti al Gup del Tribunale di Udine il 6 marzo 2018.
Il chirurgo ha inoltre sostenuto che la Corte territoriale avrebbe fatto “pessimo governo” delle risultanze dibattimentali e non avrebbe fornito risposta alle argomentazioni svolte dalla sua difesa circa l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato anche nella forma del dolo eventuale, lamentando il fatto che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente valutato i risultati dell’istruttoria (in particolare, le dichiarazioni rese dai suoi colleghi). Infine, ha censurato il mancato riconoscimento, nel giudizio di bilanciamento delle circostanze, della prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante.
La cartella clinica ha natura di atto pubblico
Ma per la Suprema Corte il ricorso è inammissibile e il primo e principale motivo di doglianza infondato. “La cartella clinica redatta dal medico di una struttura sanitaria pubblica – rammentano gli Ermellini – ha natura di atto pubblico munito di fede privilegiata con riferimento alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti da questi attestati come avvenuti in sua presenza.
La natura di atto pubblico munito di fede privilegiata, pertanto, deve essere riconosciuta anche alla parte della cartella relativa al consenso informato, nella quale il medico attesta come avvenuto in sua presenza il fatto della manifestazione del consenso all’intervento chirurgico espresso dal paziente”.
Il consenso informato, anche se “orale”, è atto munito di fede privilegiata
Ergo, le argomentazioni addotte dal ricorrente in ordine alla forma richiesta per la manifestazione del consenso si pongono come del tutto “irrilevanti”: l’atto infatti, spiegano i giudici del Palazzaccio, “rimarrebbe fidefacente anche se il medico avesse attestato che il paziente aveva manifestato oralmente il proprio consenso all’intervento. Ciò che rileva non è la forma del consenso, ma il fatto che il medico ha attestato falsamente che esso sia stato prestato”. E dovendosi applicare il termine massimo di dodici anni e sei mesi, previsto per il falso in atto pubblico fidefacente, “il reato non risulta estinto per prescrizione prima della pronuncia della sentenza di appello” chiarisce poi la Cassazione, giudicando infondato anche il secondo motivo di ricorso.
La Corte di appello, infatti, obiettano gli Ermellini, non aveva affatto escluso la circostanza aggravante in questione, “ma l’ha applicata, ritenendola, nel giudizio di bilanciamento, equivalente alle attenuanti generiche. Il giudizio di equivalenza tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti non esclude la rilevanza della circostanza aggravante ad effetto speciale inclusa tra le prime ai fini del computo del termine di prescrizione, in quanto deve ritenersi applicata anche quando produca, nel bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen., uno degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendole di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare”.
Respinte, per la cronaca, anche le altre censure prospettate dal professionista. “Con motivazione adeguata, coerente e priva di vizi logici – conclude la Cassazione – la Corte di merito ha ricostruito i fatti in conformità all’ipotesi accusatoria, soffermandosi ampiamente anche sull’elemento soggettivo del reato”. Dunque, ricorso respinto e condanna confermata.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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