Lavoratori oberati da carichi di lavoro e turni massacranti ma anche, per converso, demansionati, relegati ad attività marginali, costretti “all’ozio”. Con la rilevante ordinanza n. 7573/24 depositata il 21 marzo 2024 la Cassazione ha ribadito con forza come, nell’ambito dello specifico obbligo in capo al datore di lavoro di valorizzare le competenze e il benessere dei suoi dipendenti – rispettando non solo le mansioni indicate nel contratto di lavoro ma garantendo anche, ai sensi dell’articolo 2087 del Codice civile, un ambiente salubre anche sotto l’aspetto psicologico – la legge tuteli anche i lavoratori vittime di pratiche che conducono all’ozio lavorativo prevedendo il risarcimento da inattività lavorativa.
Un risarcimento che si deve ritenere in re ipsa, ossia già insito nell’illecito e che, pertanto, non richiede la prova di uno specifico danno alla salute o alla carriera.
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Il demansionamento forzato
Il demansionamento forzato, ricorda la Suprema Corte, si verifica quando un lavoratore viene assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto o che svolgeva abitualmente, senza il suo consenso e con una sostanziale riduzione delle sue competenze e professionalità. Si può verificare anche quando al dipendente non vengono più assegnate attività o viene estraniato dai processi decisionali a cui prima partecipava. Insomma, il demansionamento si può verificare in due casi: riduzione o privazione totale del carico di lavoro; adibizione a mansioni di livello inferiore rispetto a quelle previste all’assunzione.
Si tratta di una violazione del diritto del lavoratore ad essere adibito ai compiti per i quali è stato assunto e per cui possiede le competenze e la professionalità acquisite. Del resto, se è vero che il lavoro nobilita l’uomo e che è proprio attraverso tale lavoro che questi può migliorarsi, svuotarlo delle sue attività significa impedirgli di crescere, umiliarlo, isolarlo dal contesto lavorativo.
Il lavoratore ha diritto a svolgere le mansioni da contratto, viceversa se ne viola la dignità
Il diritto del lavoratore a svolgere ciò che risulta nel contratto di lavoro è sancito dall’articolo 2103 del Codice civile, che tutela la dignità e la professionalità del lavoratore e che recita, testuale: “Il lavoratore dev’essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».
Gli Ermellini nell’ordinanza in oggetto hanno chiarito che l’inattività forzata costituisce una violazione della dignità professionale del lavoratore. Questa condizione di ozio non solo impedisce la manifestazione delle proprie capacità nel contesto lavorativo ma comporta anche una lesione di beni immateriali fondamentali, come l’autostima e il senso di utilità. Le conseguenze dell’ozio forzato si estendono oltre la sfera professionale, incidendo anche sulla salute psicofisica del lavoratore.
Le conseguenze anche sul piano psicologico dell’inattività coatta e il risarcimento
La sentenza della Cassazione mette in evidenza come l’inattività lavorativa possa causare ansia e depressione, condizioni che possono essere riconosciute da una consulenza tecnica d’ufficio come danni non patrimoniali legati all’ambiente lavorativo. Pertanto, il lavoratore ha diritto a un risarcimento per tali lesioni, oltre al danno professionale subìto. Le prime rappresentano un danno non patrimoniale, il secondo è invece un tipico danno patrimoniale.
Il risarcimento per l’ozio forzato viene determinato considerando vari fattori, tra cui l’anzianità di servizio e l’impatto dell’inattività sulle competenze e sull’immagine professionale del lavoratore.
Nel caso di cui si sono occupati i giudici del Palazzaccio, rendendo giustizia al lavoratore, una banca è stata condannata a risarcire una sua dipendente con un importo pari a un terzo della sua retribuzione netta per il periodo di inattività contestato, oltre a circa ventimila euro per il danno non patrimoniale, calcolato in via equitativa.
La prova del danno subito può avvenire anche in via presuntiva
Per dimostrare l’ozio forzato e il relativo demansionamento, specifica infine la Cassazione, ci si può avvalere di “presunzioni”, ossia indizi basati su elementi quali le precedenti funzioni svolte dal lavoratore e la visibilità della sua inattività all’interno dell’azienda. L’ordinanza sottolinea come l’onere della prova venga alleggerito in questi casi, data la manifesta violazione dei diritti del lavoratore da parte del datore di lavoro.
Una volta provato il demansionamento, al danneggiato non spetta dimostrare anche il danno alla salute o alla professionalità: questi, infatti, si presumono già sussistenti perché impliciti nell’illecito commesso. Dunque, vanno risarciti a prescindere da qualsiasi attività probatoria del dipendente.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Categoria:
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