I climatizzatori sono spesso oggetto di contenziosi tra vicini, soprattutto in ambito condominiale, per via dei rumori e dei fumi, ma non infrequentemente diventano oggetto di causa anche tra il committente e l’installatore per via di vizi e mal funzionamenti.
Di una vicenda simile si è occupata anche la Cassazione – con la sentenza n. 31273/22 depositata il 21 ottobre 2022 -, la quale ha ribadito con forza un principio generale non limitato al caso specifico del condizionatore: l’impresa appaltatrice del lavoro, se l’apparecchio ha dei problemi, non può giustificarsi sostenendo di aver installato il climatizzatore rispettando il progetto ricevuto da terzi, perché l’installatore non è un “mero esecutore”, ha l’obbligo contrattuale di eseguire un lavoro a regola d’arte e rispettoso di tutte le prescrizioni di legge e della tecnica. E pertanto il cliente può rivalersi sulla ditta, a meno che questa non dimostri di averlo messo in guardia, inutilmente, dai rischi insiti nelle indicazioni progettuali ricevute.
Indice
Un contenzioso tra committente e ditta appaltatrice per un climatizzatore
Con sentenza 2014 il Tribunale di Monza aveva respinto l’opposizione avanzata da una donna contro il decreto ingiuntivo per l’importo di 12.138 euro oltre interessi che le era stato intimato da una ditta di termoidraulica a titolo di saldo del corrispettivo dell’appalto per la costruzione di un impianto di climatizzazione, come da contratto originario del maggio 2010 poi modificato con scrittura del dicembre dello stesso anno.
Il giudice di primo grado aveva respinto anche la domanda di risoluzione per inadempimento proposta dalla committente per la difformità delle opere eseguite rispetto alle prescrizioni del Decreto del Ministero dello sviluppo economico 22 gennaio 2008, n. 37 (Regolamento concernente l’attuazione dell’articolo 11-quaterdecies, comma 13, lettera a, della legge n. 248 del 2005, recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all’interno degli edifici).
Il tribunale aveva considerato come, alla stregua della scrittura privata contrattuale del 7 dicembre 2010 e delle clausole contenute nel computo metrico, l’impresa appaltatrice aveva cominciato ad operare in autonomia soltanto dal mese di agosto 2010, essendo stata in precedenza mera esecutrice materiale di un progetto realizzato da terzi (come emerso anche dalle conclusioni della consulenza tecnica disposta ad hoc) ed avendo realizzato le opere sotto la direzione dei lavori di un tecnico incaricato dalla committente
La quale aveva appellato la decisione, ma la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 2017, aveva rigettato anche il gravame osservando che i termini del già citato accordo del 7 dicembre 2010, concluso quando i lavori erano ancora in corso, fossero estremamente chiari, nel senso che il secondo pagamento doveva avvenire alla fine del gennaio 2011 ed esso non ancorato alla fine dei lavori, come pretendeva la donna che vi si era sottratta.
L’impresa aveva realizzato fedelmente il progetto esecutivo dei tecnici della committente
Per i giudici di seconde cure non si poteva riconoscere all’appaltatrice un’autonomia tale da intervenire sul progetto che le era stato chiesto di realizzare. L’impresa, sempre sulla scorta dell’accordo con la committente, doveva procedere all’esecuzione dei lavori “nel rispetto delle caratteristiche tecniche, delle forniture di materiali e di apparecchiature indicate nel progetto esecutivo e illustrate nella documentazione di sviluppo”, predisposta da due società di progettazione e attenersi al computo metrico e alle tavole degli impianti. I giudici avevano quindi concluso per la legittimità della sospensione delle opere e della loro mancata ultimazione, negando la configurabilità di un inadempimento della ditta a fronte dell’omesso pagamento del prezzo dovuto dalla committente a gennaio 2011.
La donna tuttavia, convinta delle proprie ragioni, ha proposto anche ricorso per Cassazione evidenziando in primis che da una clausola della già citata scrittura del 7 dicembre 2010 doveva desumersi che l’impresa non poteva considerarsi “nudus minister” nell’esecuzione dell’appalto, ma che essa era chiamata all’osservanza di leggi, regolamenti e norme in materia di appalto. In sostanza, la committente ha censurato l’interpretazione data dalla Corte d’appello al contratto concluso fra le parti per aver negato la responsabilità dell’appaltatrice in ordine ai vizi di funzionamento dell’impianto di climatizzazione, stante l’esistenza di errori progettuali imputabili alle due società di progettazione incaricate dalla committente.
E la Suprema Corte le ha dato ragione, cassando la sentenza. Secondo gli Ermellini la motivazione della sentenza impugnata non ha tenuto conto dei consolidati principi più volte ribaditi dalla stessa Cassazione. “Nel contratto di appalto privato di un’opera – spiegano i giudici del Palazzaccio -, la legge non dispone a carico di quale delle parti gravi l’obbligo di redazione del progetto complessivo a cui fare riferimento per la sua realizzazione, né indica lo stesso come indispensabile: non è neppure necessario che l’opera sia determinata anche nei suoi minuti particolari, rimanendo sufficiente che ne siano fissati gli elementi fondamentali”.
Quando, peraltro, il contratto di appalto faccia riferimento a un progetto, con una descrizione esatta dell’oggetto fondata su criteri tecnici, prosegue la Suprema Corte, “l’opera deve certamente essere eseguita dall’impresa appaltatrice in conformità del medesimo progetto ed a regola d’arte. Così, l’art. 1659 c.c. inibisce all’appaltatore di apportare, senza l’autorizzazione del committente, variazioni non concordate del “progetto”, cioè delle modalità convenute dell’opera, allo scopo, appunto, di assicurare che il risultato sia conforme, anche nei particolari, a quello che il committente si era proposto”.
Ciò significa, precisano gli Ermellini, che una clausola, quale quella compresa nel contratto inter partes, secondo cui l’appaltatore deve procedere all’esecuzione dei lavori “nel rispetto delle caratteristiche tecniche, delle forniture di materiali e di apparecchiature indicate nel Progetto esecutivo e illustrate nella documentazione di sviluppo” ed attenersi al computo metrico e alle tavole degli impianti, “non è affatto eccentrica rispetto alla disciplina tipica del contratto d’appalto, ed anzi ne costituisce il proprium”.
L’appaltatore non è mero esecutore e può dover rispondere dei vizi anche di un progetto terzo
Pertanto, ed è il punto saliente della sentenza, la circostanza che l’appaltatore esegua l’opera su progetto del committente o fornito dal committente “non lo degrada, per ciò solo, al rango di “nudus minister“, poiché la fase progettuale non interferisce nel contratto e non ne compone la struttura sinallagmatica”. Ed è qui che la Cassazione ribadisce il principio “costantemente affermato in giurisprudenza, con il quale non si è confrontata la sentenza impugnata. L’appaltatore che, nella realizzazione dell’opera, si attiene alle previsioni del progetto fornito dal committente può non di meno essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera stessa, valutandone la condotta secondo il parametro di cui all’art. 1176, comma 2, del codice civile”.
A meno che non dimostri di aver messo in guardia il committente
In particolare, precisa meglio la Suprema Corte, “l’appaltatore deve comunque segnalare al committente le carenze e gli errori progettuali al fine di poter realizzare l’opera a regola d’arte, con la conseguenza che, in caso contrario, egli è comunque responsabile anche se ha eseguito fedelmente il progetto e le indicazioni. L’appaltatore, invero, deve assolvere al proprio obbligo di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, ed è perciò tenuto a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirli, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo”.
Ne consegue che, in mancanza di tale prova, “l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista”.
La Cassazione fa un ultimo accenno al fatto che la Corte d’appello, quanto alla rilevabilità dei riscontrati difetti progettuali da parte dell’appaltatore, aveva rinviato alla consulenza tecnica d’ufficio. “Tuttavia, l’insufficienza tecnica del giudice, che il perito può essere chiamato a supplire, non concerne né la qualificazione giuridica di fatti, né la verifica della conformità alla legge di determinati comportamenti – puntualizzano gli Ermellini – La consulenza d’ufficio è funzionale alla risoluzione di questioni di fatto che presuppongano soltanto cognizioni di ordine tecnico, sicché non spetta all’ausiliare svolgere accertamenti o formulare valutazioni circa la legittimità di condotte umane, o di opere materiali, né di ricostruire il contenuto e la portata di una norma o di un negozio”.
Qui si trattava di accertare “in che limiti l’appaltatrice, tenuto conto della propria specifica organizzazione, fosse obbligata a controllare la bontà del progetto fatto predisporre dalla committente e delle istruzioni impartite dalla medesima, e cioè quali fossero le cognizioni tecniche esigibili da quel determinato imprenditore edile secondo la diligenza qualificata su di esso gravante, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c.” Sulla base di questi principi, dunque, il giudice del rinvio, la Corte d’Appello meneghina in diversa composizione, dovrà procedere a un nuovo esame della vertenza.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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