Il “follow up”, ossia il costante e scrupoloso controllo delle condizioni di un paziente, tanto più se la sua situazione clinica è complessa e a rischio, è fondamentale e un medico che lo ometta è inevitabilmente responsabile di malpractice: il suo compito non si esaurisce con l’intervento chirurgico, sono altrettanto importanti il prima, la fase pre-operatoria, e il dopo, il monitoraggio continuo.
Con la sentenza n. 17656/23 depositata il 20 giugno 2023 la Cassazione, terza sezione Civile, si è occupata dell’ennesimo caso di medicina e chirurgia bariatrica, collegata all’obesità, che ha causato gravi conseguenze alla persona che vi si è sottoposta.
Indice
Il calvario di una donna sottoposta a diversi interventi per perdere peso
Una paziente, nel lontano mese di giugno del 2002, aveva subito un intervento chirurgico di laparo banding gastrico, essendo gravemente obesa e affetta da disturbi alimentari e diabete. Dopo un’iniziale perdita ponderale, a distanza di due anni circa, tuttavia, la donna era tornata nella condizione iniziale, e si era così reso necessario un secondo intervento, effettuato della medesima struttura e dallo stesso chirurgo. Ma il decorso post operatorio era stato caratterizzato da numerose complicanze, la paziente era stata dimessa nonostante la non completa guarigione, il che aveva imposto di effettuare altri due interventi chirurgici nel gennaio del 2005 e un terzo, di lì a pochi giorni, per la realizzazione di altra sutura gastrica.
Non bastasse, nel maggio di quello stesso anno, la signora era stata ricoverata in un’altra struttura con diagnosi di “deficit deambulatorio con sindrome ipocinetica succeduta a interventi chirurgici multipli intestinali per obesità, postumi di meningoencefalite erpetica, ipertrigliceidemia”. E dopo due settimane era stata nuovamente ricoverata presso la stessa struttura dove le era stata diagnosticata “sclerosi combinata del midollo su base carenziale in soggetto precedentemente operato di bendaggio gastrico per obesità severa”. E a questo erano poi seguiti altri ricoveri e un’ulteriore operazione nell’agosto del 2016.
La paziente cita in giudizio la struttura e medico e Ulss vengono condannati
Ritenendo di essere stata vittima di malpractice, la donna aveva citato in giudizio la clinica, ma era deceduta nel corso del giudizio di primo grado dopo il palesarsi di un grave quadro infettivo in un contesto già fortemente debilitato. Il giudice di prime cure aveva comunque accolto la domanda risarcitoria e la Corte d’appello aveva in parte confermato la decisione di primo grado, osservando che le relazioni tecniche giudiziali, quella preventiva e quella disposta nel corso del giudizio, avevano attestato che erano mancati sia lo “screening” pre-operatorio sia il “follow up”, costanti irrinunciabili della chirurgia bariatrica, così da correggere i prevedibili e prevenibili disturbi del comportamento alimentare e psicotici.
Erano mancati lo screening e il follow up
Infatti, nella lettera di dimissioni, dopo il primo intervento del 10 giugno 2005 pur eseguito correttamente, era stato indicato che la paziente soffriva di bulimia nervosa, circostanza non approfondita dal chirurgo. I sanitari avevano assunto una condotta non pertinente alla patologia di encefalopatia carenziale poiché, nonostante i sintomi, non avevano ravvisato un potenziale quadro neurologico correlabile ai deficit nutrizionali del tutto tipici della chirurgia bariatrica. Un idoneo “follow up” clinico laboratoristico e l’appropriato monitoraggio costante, le cui mancanze erano state confermate dalla cartella clinica, avrebbero evitato, con giudizio di elevata probabilità logica e scientifica, la determinazione di encefalopatia carenziale rivelatasi fatale.
Le dimissioni dalla casa di cura erano state inoltre imprudenti e improprie in presenza delle complicanze emerse dopo l’intervento lì eseguito, e le mancanze complessive avevano costituito antecedenti della concatenazione causale poi progressivamente maturata.
I Giudici di appello avevano riformato la decisione, oltre che nella quantificazione del danno biologico terminale e morale, limitando le manleve alla quota di responsabilità dell’Asl e del chirurgo, accertata per ciascuno in un terzo, assumendo rilevanza la diversa efficienza causale ai fini della ripartizione interna.
Sia l’azienda sanitaria sia il medico hanno quindi proposto ricorso per Cassazione con diversi e separati motivi, ma qui premono quelli proposti dal dottore, il quale obiettava che la diagnosi di bulimia non era risultata indicata in documenti medici da lui visionabili, che questa era stata indicata quale controindicazione della chirurgia bariatrica solo in linee guida approvate successivamente nel 2011 e che l’intempestiva dimissione dopo l’intervento del 2004 non era gli era imputabile poiché, subito dopo l’operazione, la paziente era stata trasferita presso la divisione di Cardiologia della stessa Casa di cura.
Censure che tuttavia la Suprema Corte ha ritenuto inammissibili. Come si è detto, la Corte d’Appello aveva ha addebitato al sanitario il mancato “follow up” sin dal primo intervento, indicato come una costante irrinunciabile, al pari del pur mancato “screening” pre-operatorio, della chirurgia bariatrica.
A parte la tematica della bulimia nelle linee guida internazionali, quale controindicazione alla chirurgia bariatrica, gli Ermellini evidenziano come fosse stato ampiamente provato l’omesso diligente screening e soprattutto il correlato “follow up” addebitati in ragione dell’indice di obesità patologica BMI, laddove la lettera di dimissione, dopo l’intervento operatorio del giugno 2002, indicava che la paziente era affetta da bulimia nervosa.
L’attività del chirurgo non si limita all’intervento, si estende alla preparazione e al follow up
La Suprema Corte sottolinea che “l’attività dovuta dal chirurgo non è limitata all’intervento operatorio, ma si estende alla compiutezza della sua prestazione e in relazione al correlato interesse di tutela della salute del paziente, alla fase preparatoria dell’intervento e alle informazioni relative al doveroso “follow up” comunque richiesto dal caso concreto”.
Ragionando in tal senso, il solo trasferimento post operatorio della paziente ad altra divisione della stessa struttura, in occasione del secondo intervento, non esimeva dal complessivo “follow up”. Né rileva, concludono i giudici del Palazzaccio confermando la piena responsabilità del sanitario, che il chirurgo non abbia redatto il documento in uscita della paziente. Conseguentemente, anche le imprudenti dimissioni sono state correttamente accertate dai Giudici di appello.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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