La cremazione di una salma esumata va espressamente autorizzata dai congiunti del defunto: nel caso contrario si lede un diritto fondamentale tutelato costituzionalmente, quello di culto, e chi commette tale violazione deve risarcire il danno procurato.
A ribadire con forza questo principio la Cassazione con una sentenza “alta”, la n. 370/23 depositata il 10 gennaio 2023, con cui ha confermato la condanna di un’impresa che aveva in appalto la gestione dei cimiteri di un comune torinese a risarcire i familiari per aver cremato senza il loro consenso la salma del loro caro estinto.
Indice
Figlia cita una ditta di servizi cimiteriali per aver cremato la salma del padre senza consenso
La Suprema Corte si è occupata di un fatto tutt’altro che infrequente, visto che in occasione (soprattutto) di esumazioni ed estumulazioni per decorsi termini di concessione di tombe e loculi si verificano spesso episodi incresciosi dovuti per lo più a mancata informazione. Ed è appunto quanto accaduto nello specifico.
La figlia di un defunto aveva citato in causa l’impresa concessionaria, attraverso affidamento diretto da parte del Comune, dei servizi cimiteriali (di sepoltura e movimentazione delle salme) del camposanto dove il genitore era sepolto per sentirla condannare al risarcimento del danno non patrimoniale patito a seguito della cremazione dei resti del padre, successiva alla riesumazione, che lamentava essere avvenuta in violazione della normativa vigente: né lei, né la madre (all’epoca ancora vivente), né la sorella erano state infatti informate della cremazione, in quanto l’azienda si sarebbe limitata a trasmettere una raccomandata a lei, che tuttavia non l’aveva mai ricevuta essendo stata inviata (senza alcuna preventiva verifica anagrafica) all’indirizzo riportato nella fattura relativa alle spese di sepoltura, che non era più – da anni – quello effettivo della destinataria.
I giudici di merito accolgono la richiesta danni e condanno l’impresa al risarcimento
La donna aveva spiegato che, ove fossero stati informati, i familiari del defunto avrebbero optato per una nuova inumazione, anziché per la cremazione. Il Tribunale di Torino aveva accolto la domanda e liquidato il danno alla figlia del defunto in 5.300 euro. La ditta aveva appellato la sentenza ma la Corte di Appello di Torino, con decisione del 2019, aveva confermato il verdetto di primo grado, salvo ridurre il risarcimento a 2.500 euro.
I giudici avevano rilevato, fra l’altro, che la disciplina applicabile in relazione alle possibilità di procedere alla cremazione della salma esumata (e non ancora completamente scheletrizzata) è, in primo luogo, l’art. 79 del D.P.R. n. 285/1990 (Regolamento di Polizia Mortuaria), dettato in riferimento alla cremazione del cadavere dopo il decesso (in alternativa alla inumazione o alla tumulazione), ma valida anche per la cremazione dei resti umani rinvenuti in sede di esumazione, come si desume dall’art. 3, comma 6 del D.P.R. n. 254/2003 che, nell’escludere, per i resti umani, l’applicazione dei commi 4 e 5 del predetto art. 79, fa evidentemente salva l’applicazione dei commi primo e secondo, i quali prevedono la necessità di una volontà espressa (in vita) dal defunto o, dopo il decesso, dal coniuge o (in difetto) dai parenti più prossimi.
La Corte d’appello sostiene che la cremazione post esumazione va autorizzata dai parenti
La Corte d’appello ha aggiunto come deponesse in tal senso anche l’art. 3, lett. g) della l. n. 130/2001 (“Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri“), ai sensi della quale “l’ufficiale dello stato civile, previo assenso dei soggetti di cui alla lett. b), numero 3), o, in caso di loro irreperibilità, dopo trenta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio del comune di uno specifico avviso, autorizza la cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno venti anni”.
Sebbene non siano stati emanati i decreti attuativi dei principi espressi dall’art. 3 (il cui comma primo prevedrebbe l’adozione di un regolamento entro sei mesi dell’entrata in vigore della legge), “la disposizione prevista dalla lett. g) trova immediata applicazione, sia ove la si consideri norma interpretativa di disposizione previgente e cioè degli artt. 79 DPR 285/90 e 3 comma 6 DPR 354/03, sia, come preferibile, trattandosi di disposizione che ha efficacia precettiva, a prescindere dall’emanazione di una norma di dettaglio, che sul punto non è necessaria disciplinando compiutamente la materia” faceva notare la Corte d’appello torinese.
L’art. 3 della l. n. 130/2001 prevede pertanto la necessità di un consenso espresso da parte dei familiari, che può essere sostituito da una pubblicazione di avviso nell’albo pretorio soltanto in caso di loro irreperibilità; al riguardo, osservavano i giudici territoriali, l’impresa di servizi cimiteriali non aveva provato che la comunicazione personale non fosse possibile (“avendo sempre affermato per contro che non era necessaria”), né che fosse particolarmente gravosa, mentre “la comunicazione per pubblici proclami, ovvero attraverso i quotidiani non è idonea a consentire di ritenere un soggetto irreperibile”, a nulla rilevando “che le stesse siano state previste dal regolamento comunale e da circolari ministeriali, trattandosi di fonti sotto ordinate alla legge ed in quanto tali non idonee a derogare alla norma primaria, tanto più che l’idoneità di tali forme di pubblicità ad avvisare gli interessati che verranno effettuate le estumulazioni e le esumazioni dipende dal fatto che per tali procedure non è previsto alcun consenso da parte degli interessati” concludeva la Corte.
L’eventuale disinteresse non equivale al consenso che deve essere “espresso”
Dunque, riassumendo, i giudici avevano chiarito che per poter procedere alla cremazione dei resti mortali la norma richiede il consenso espresso dei famigliari, tranne nei casi di loro irreperibilità, e inoltre che “nel caso in cui, ricevuta la comunicazione, la parte si disinteressi, l’amministrazione non potrà procedere alla cremazione dei resti mortali, in quanto il disinteresse non equivale a consenso”, con la conseguenza che, nel caso di disinteresse dei familiari, si dovrà “procedere ad una nuova inumazione”. Pertanto, dato che nel caso specifico la ditta non aveva dimostrato di aver informato i soggetti che dovevano esprimere il consenso, la Corte territoriale ha ritenuto provata la sua condotta illecita.
L’azienda tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione, sostenendo in primis che la citata norma dell’art. 79 del Regolamento di Polizia Mortuaria avrebbe riguardato esclusivamente la cremazione del cadavere (in occasione della “prima sepoltura”), mentre per la cremazione dei resti mortali derivanti da attività di esumazione ed estumulazione l’art. 3 del D.P.R. n. 254/2003 prevedrebbe che l’autorizzazione venga rilasciata de piano dal competente ufficio comunale, “in assenza della documentazione prevista dai commi 4 e 5, art. 79 D.P.R. n. 285/1990, che non è ovviamente richiesta, e senza in alcun modo richiedere l’assenso dei familiari”, giacché “la norma non rinvia affatto alle condizioni di cui al citato art. 79” per citare il ricorso. Nel quale sono stati citati a sostegno di questa tesi anche la Circolare del Ministero della Sanità n. 10 del 31 luglio 1998 e l’ordinanza sindacale n. 970/2011 del Comune in questione.
La ricorrente ha asserito che la cremazione e la conservazione delle ceneri nei cimiteri sono disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285 (comma 2) e che “le autorizzazioni alla cremazione, al trasporto, all’inumazione o alla tumulazione dei resti mortali, sono rilasciate ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 2003, n. 254”: secondo l’azienda sarebbe stata quindi del tutto errata la considerazione svolta nella motivazione della sentenza secondo la quale, in tale fattispecie, il consenso dei famigliari era già richiesto dal predetto DPR 285/1990, così come errata sarebbe stata l’interpretazione e l’applicazione della norma regionale, ed in particolare del comma 11, che al contrario, sempre secondo la tesi difensiva, avrebbe legittimato senz’altro l’autorizzazione alla cremazione indipendentemente dal consenso (o assenso) espresso dei familiari.
Infine, la ricorrente ha censurato l’applicazione al caso fatta dalla Corte d’appello dell’art. 3, comma 1, lett. g) della L. n. 130/2001, sostenendo l’inefficacia della norma in assenza del regolamento attuativo. Aggiungendo che il parere n. 2957/03 espresso dal Consiglio di Stato, che aveva ritenuto immediatamente applicabili, nonostante la mancata emanazione del regolamento, le sole disposizioni della L. n. 130/2001, sottolineava tuttavia che la disposizione “richiede necessariamente l’emanazione di norme attuative che ne rendano chiara, coerente e possibile l’operatività”: pertanto, la norma non avrebbe potuto trovare diretta ed automatica applicazione, in quanto, appunto, richiedeva la definizione di “molteplici aspetti applicativi”.
La norma infatti non avrebbe disposto nulla in merito alla precisa portata della “irreperibilità” quale condizione per procedere in mancanza di assenso, né in ordine alle modalità, natura formale e condizioni della comunicazione agli interessati dell’avvio eventuale della cremazione, presupposto per l’eventuale esplicazione dell’assenso previsto dalla lett. g) o per il perfezionamento della condizione di irreperibilità. Né avrebbe disposto nulla di esplicito per il caso in cui, effettuata la comunicazione, sussistesse ancora o permanesse il silenzio, il disinteresse, degli interessati.
Sostenuta pertanto la mancata operatività dell’art. 3, lett. g) della L. n. 130/2001 in assenza di regolamento attuativo, la ricorrente concludeva che, “in caso di cremazione di resti mortali, non può che intervenire il disposto del già richiamato art. 3, commi 5 e 6 D.P.R. n. 254/2003, intervenuto successivamente alla norma in esame, che rimette al competente ufficio comunale il rilascio dell’autorizzazione (anche) alla cremazione dei resti mortali, senz’altra condizione”. E affermava inoltre che, alla luce della riforma costituzionale di cui alla L. Cost. n. 3/2001, la quale comportava una competenza almeno concorrente, nella materia, di Stato e Regione, la norma di cui all’art. 2, comma 11 della L.R. Piemonte n. 20/2007, avrebbe superato la norma previgente (L. n. 130/2001) e comunque costituito essa stessa “il complesso delle norme attuative” previste dall’art. 3, comma 1, I. n. 130/2001.
Per l’impresa nessuna violazione del principio costituzionale della pietas dei defunti
La ricorrente ha persino sollevato eccezione di costituzionalità della norma oggetto del contendere per “violazione del principio di buon andamento della Amministrazione ex articolo 97 della Carta e del principio di ragionevolezza, corollario del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta, cosiddetto eccesso di potere legislativo”; più specificamente, ha contestato la legittimità costituzionale della norma ove venga interpretata: “nel senso di escludere forme di comunicazione agli interessati, aventi diritto ad esprimere l’assenso, nelle forme previste dall’art. 8, comma 3, della L. n. 241/1990”, e “nel senso di escludere che il mancato riscontro alla comunicazione effettuata nelle forme di legge consentite, cosiddetto “disinteresse’” costituisca condizione equivalente all’assenso ritualmente espresso”.
Infine, l’azienda ha censurato la sentenza d’appello laddove aveva affermato che era stato violato il principio costituzionale della pietas dei defunti, “costituente estrinsecazione della propria libertà personale e del diritto ad esercitare il proprio pensiero e di professare la propria fede”, sostenendo che il sentimento di pietà per i defunti, inteso quale diritto soggettivo ad esercitare il culto dei propri morti, non sarebbe stato leso, tenuto conto che le ceneri erano state riposte in un’urna con i dati identificativi del defunto e che la pratica della cremazione è consentita da tempo anche dalla Chiesa cattolica ed è ampiamente diffusa nel costume sociale.
Ma per la Suprema Corte tutti i motivi di doglianza sono infondati. La legge n. 130 del 2001, spiegano gli Eermellini, ha demandato ad un successivo regolamento la nuova disciplina di polizia mortuaria, “ponendosi però essa stessa come fonte di quella disciplina in alcuni casi particolari”.
All’articolo 1 lettera g, la norma, come detto., prevede che “l’ufficiale dello stato civile, previo assenso dei soggetti di cui alla lettera b) numero 3), o, in caso di loro irreperibilità, dopo trenta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio del comune di uno specifico avviso, autorizza la cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno venti anni”.
Anche senza decreti attuativi, va applicala la norma che prevede il consenso per la cremazione
La Cassazione prende atto che “non è stato emanato regolamento attuativo di tale norma di legge”, e tuttavia, aggiunge, “può fondatamente dirsi che la norma in questione è comunque vigente, essendo il suo precetto sufficientemente dettagliato da potersi applicare: è infatti previsto che l’ufficiale dello stato civile debba richiedere il consenso dei parenti, previo loro individuale avviso, e, nel caso di irreperibilità, previa affissione all’albo”. Con la conseguenza che, proseguono i giudici del Palazzaccio, “la norma contempla almeno due forme alternative di comunicazione agli interessati, che esauriscono le ipotesi che si possono verificare in concreto. Inoltre, attraverso il richiamo alla lettera b) del medesimo articolo, la legge individua altresì in modo specifico la categoria dei parenti il cui assenso deve essere richiesto”. Si tratta quindi di una norma che, secondo la Suprema corte, “non ha bisogno di ulteriori specificazioni per poter essere applicata”.
Vanno tutelati il diritto a essere informati e alla libertà del culto per il caro estinto
Premesso questo, la Cassazione prende atto anche del fatto, pacifico, che la comunicazione individuale “è stata effettuata a domicilio non corretto, per poi essere rinnovata, ma erroneamente, mediante pubblici proclami”. “L’articolo sopra richiamato – ribadiscono gli Ermellini – prevede il previo assenso dei parenti, e questa previsione comporta allocazione di un diritto a essere informati e dunque ad acconsentire o meno alla cremazione. Qui il consenso è atto strumentale alla tutela di un interesse preesistente, ossia non consistente nel consenso stesso: quello del vivente all’integrità del corpo del defunto, ed altresì alla possibilità di culto verso quest’ultimo”. E la legge, sottolineano i giudici del Palazzaccio, prevede il consenso del parente “proprio perché riconosce al parente un interesse non solo al culto verso il defunto, ma altresì a che la modalità di tale culto non sia imposta in forme diverse da quelle fino a quel momento esercitate”.
In buona sostanza, il consenso dei parenti “è strumentale alla realizzazione o alla tutela dell’interesse cosiddetto secondario al sepolcro”. Tradizionalmente si distingue infatti tra diritto primario al sepolcro, ossia il diritto di essere seppellito o di seppellire altri in un dato sepolcro, “e che taluno ritiene avere natura reale, tale altro personale”, ed il diritto secondario, questo però “di natura personalissima ed intrasmissibile, che spetta a chiunque sia congiunto di una persona, che riposa in un sepolcro, di accedervi e di opporsi ad ogni trasformazione che arrechi pregiudizio al rispetto dovuto a quella spoglia. Questo diritto secondario è senz’altro un diritto di natura personale, difettando il potere sulla cosa caratteristico del diritto di sepolcro primario, e consistendo esso piuttosto che nella tutela del godimento o dell’uso di un sepolcro, nella tutela del sentimento del parente verso il defunto”.
Esso cioè si distingue dall’interesse dei parenti a che la salma rimanga nel luogo di sepoltura per il periodo minimo previsto dalla legge, nonché ad avere risarcimento per l’illegittima anticipata traslazione, “interesse sotteso al diritto primario, ossia al diritto di uso e godimento del sepolcro”. Inoltre, i “diritti secondari di sepolcro” prosegue la Cassazione, vanno distinti dalla pietà verso i defunti, quale oggetto giuridico dei reati previsti dagli articoli 407 e ss. del codice penale: “pietà che consiste nel sentimento collettivo, e non già individuale, che la società esprime verso i propri cari” chiariscono i giudici del Palazzaccio, ricordando che una delle obiezioni all’introduzione nel codice penale dei delitti contro la pietà dei defunti fu proprio l’affermazione che si trattava di “sentimenti personali non suscettibili dì tutela penale”, e la replica fu, per l’appunto, che invece “quei delitti vanno punti perché ledono un sentimento sociale nobilissimo”.
I diritti secondari di sepolcro implicano sentimenti che esaltano l’aspetto spirituale dell’uomo
I diritti secondari di sepolcro hanno piuttosto a contenuto, vanno a concludere gli Ermellini, “sentimenti che esaltano l’aspetto spirituale dell’uomo e costituiscono la parte più alta e fondamentale del patrimonio affettivo della comunità, e rappresentano dal punto di vista giuridico la classe dei sentimenti-valori, qualificati positivamente dal diritto e protetti sia in funzione della loro attuazione sia contro eventuali violazioni”. E a prescindere della norme di riferimento richiamate in alcune sentenze di merito sulla specie, “l’ interesse dei parenti ad avere un luogo per onorare il defunto, e l’interesse a che tale luogo non sia trasformato, è esplicazione di un diritto della personalità, o di una manifestazione del diritto alla personalità (ove si acceda alla tesi monistica), posto che il culto dei defunti è parte della vita personale di ciascuno, e dunque momento di sviluppo della personalità, cui concede rilevanza l’articolo 2 della Costituzione. Esso è anche espressione della libertà religiosa di ognuno, quale che sia la religione seguita, essendo il culto dei defunti comune alle diverse religioni praticate dai cittadini”: dunque il diritto secondario di sepolcro trova fondamento altresì nell’articolo 19 della Costituzione, che garantisce la libertà di religione e con essa delle pratiche che ne sono espressione.
“Le leggi ordinarie stabiliscono le modalità di tutela di tale diritto, ma esso è innanzitutto un diritto che trova ragione nella Carta fondamentale, e precisamente nei citati articoli 2 e 13. Ciò si dice in quanto i congiunti del defunto hanno chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, che, come è noto, in assenza della previsione espressa di un suo risarcimento, è risarcibile ove derivi dalla violazione di interessi costituzionalmente tutelati” conclude con forza la Cassazione, smentendo anche l’affermazione, riportata nel ricorso, secondo cui nella vicenda in questione questo interesse, pur rilevante costituzionalmente, non avrebbe tuttavia subito alcuna lesione in quanto la salma era solo stata trasformata in cenere.
“E’ di tutta evidenza che l’interesse al culto dei defunti non è leso soltanto dalla distruzione o dispersione del cadavere, ma altresì dalla imposizione di forme di culto che non sono previamente accettate dai parenti del defunto”. Una conclusione “imposta proprio dalla necessità del consenso dei parenti: prevedendo che la trasformazione in cenere debba essere autorizzata, è la legge stessa che considera lesione del diritto una trasformazione che ne prescinda”. E’ la stessa legge, cioè, a dare rilevanza al mero trasferimento (oltre che alla trasformazione) della salma, “ossia è la legge stessa a riconoscere un diritto ad opporsi alla cremazione, e da ciò si deduce che la cremazione, se non autorizzata, è atto lesivo del diritto di culto”. Il ricorso è stato pertanto rigettato con conferma della condanna dell’azienda a risarcire i familiari del defunto.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
Vedi profilo →
Categoria:
Contenziosi con AziendeCondividi
Affidati aStudio3A
Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.
Articoli correlati