Il danno da perdita della capacità lavorativa specifica va liquidato, ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa andata persa a causa dell’illecito o dell’inadempimento, anche nell’ipotesi in cui egli fosse al momento disoccupato, laddove si tratti di una disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, a fronte della ragionevole certezza o la positiva dimostrazione che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale. E’ una ordinanza importante a tutela dei danneggiati e del loro diritto al risarcimento integrale quella, la n. 4289/24, depositata dalla Corte di Cassazione, terza sezione Civile, il 16 febbraio 2024.
Indice
La causa di un paziente, camionista, contro l’ospedale per i gravi danni subiti dopo un intervento
Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza 28 marzo 2018, aveva condannato l’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Ovest Milanese e un medico, in solido tra loro, a risarcire a un paziente i gravi danni subìti a seguito della imprudente ed imperita esecuzione, nel settembre 2010, di un intervento chirurgico di eliminazione di un calcolo ureterale, culminata in una fessurazione della parete vescicale periuretrale, da cui erano residuati postumi di prostatite, neuropatia del pudendo e sintomatologia dolorosa pelvica, con impossibilità di mantenere posture fisse prolungate ed esigenze ravvicinate di minzione.
In primo grado paziente risarcito, ma non per il danno da partita della capacità lavorativa specifica
Il Tribunale aveva liquidato il danno non patrimoniale stabilendo un importo di centoventimila euro e aveva accolto parzialmente il capo di domanda relativo al danno patrimoniale emergente da spese mediche, ritenendo che essa fosse circoscritta a quelle sostenute sino alla data della citazione, del febbraio 2015, ma aveva rigettato quello relativo al danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica, formulato sul presupposto che il danneggiato, che all’epoca dell’operazione “incriminata” aveva 32 anni, non avrebbe potuto continuare a svolgere l’attività lavorativa di autotrasportatore che aveva sempre esercitato.
La Corte d’appello riforma parzialmente la decisione, ma per questa voce liquida solo 40mila euro
La Corte d’Appello di Milano, avanti la quale avevano appellato la decisione di primo grado sia l’Azienda sanitaria con il chirurgo sia, il via incidentale, il paziente, con sentenza del dicembre 2019, aveva rigettato la prima e parzialmente accolto la seconda, aggiungendo alla somma di centoventimila euro liquidata dal primo giudice a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, quella di quarantamila a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa.
La Corte territoriale aveva deciso sulla base di questi rilievi. Diversamente da quanto rilevato dal primo giudice, il paziente aveva provato sia il reddito derivante dall’attività di autotrasportatore (che aveva sempre svolto) anche negli anni 2009 e 2010, mediante produzione delle relative dichiarazioni dei redditi, sia di avere ricevuto una proposta di assunzione come autista nel novembre 2010, allorché si trovava in stato di temporanea disoccupazione, proposta che però non aveva poi potuto accettare proprio a causa delle condizioni di salute in cui si era venuto trovare dopo l’intervento chirurgico del settembre precedente: del resto, lo stato di disoccupazione antecedente l’evento, di cui non era provato il carattere volontario, non poteva ridondare a suo danno, avevano osservato i giudici di seconde cure.
I quali tuttavia avevano anche rilevato come l’incapacità lavorativa del paziente non fosse assoluta, in quanto il consulente tecnico d’ufficio medico legale nominato dal Tribunale aveva chiarito che, sebbene il danneggiato non potesse continuare a svolgere l’attività di camionista (per l’impossibilità di mantenere la stazione seduta per un tempo prolungato e per disturbi minzionali), tuttavia egli avrebbe potuto svolgere altri lavori, purché non comportanti posture obbligate protratte o un importante impegno fisico.
Tutto ciò considerato, la valutazione equitativa del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro doveva essere ancorata, secondo la Corte territoriale, “alla permanente invalidità accertata, alle conseguenze derivate anche in termini di danno psichico, e tenuto conto anche dell’età del danneggiato“, cosicché, secondo i giudici, doveva ritenersi equo l’importo di quarantamila euro, “pari, appunto ad un terzo della liquidazione già operata”.
Quanto infine al danno emergente da spese mediche future, sebbene se ne dovesse riconoscere la sussistenza alla luce delle risultanze della Ctu, per la Corte d’Appello occorreva tuttavia confermare il rilievo circa la novità e la conseguente tardività della domanda, non ritualmente formulata né nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado né nella memoria di cui all’art.183 n.1 cod. proc. civ., con conseguente rigetto dell’istanza risarcitoria in tal senso.
Il danneggiato ricorre per Cassazione per il danno patrimoniale da mancato guadagno
L’autotrasportatore, quindi, ha proposto ricorso anche per Cassazione con tre motivi di doglianza: quello relativo alle spese mediche è stato rigettato, ma gli altri due, invece, sono stati pienamente accolti dalla Suprema Corte. Il danneggiato ha lamentato il fatto che la Corte di merito avrebbe mancato di provvedere sulla domanda, da lui specificamente formulata, di risarcimento del danno patrimoniale da mancato guadagno, comprensivo sia dell’omessa retribuzione che dell’omessa contribuzione previdenziale, per la perdita della capacità lavorativa specifica, limitando la propria motivazione alla sola considerazione di una residua “potenziale limitata capacità lavorativa generica”; dall’altro lato, alternativamente, il danneggiato ha censurato il fatto che i giudici di appello, pur ritenendo accertati i presupposti per la liquidazione del danno patrimoniale da mancato guadagno per l’abolizione della capacità lavorativa specifica (attività prestata prima dell’evento; capacità reddituale; carattere transeunte e non colpevole dello stato di disoccupazione; radicale abolizione della attitudine ad esercitare il lavoro concretamente svolto di autotrasportatore), avrebbe contraddittoriamente e illogicamente negato la liquidazione del relativo danno, sul rilievo della “ipotetica possibilità” di svolgimento di altra attività, tra l’altro comunque “non confacente con la propria professionalità“.
Il ricorrente ha quindi dedotto la violazione del principio dell’integralità del risarcimento, postulato dall’art. 1223 cod. civ., e la violazione dei criteri di liquidazione del danno da mancato guadagno, osservando che la stessa sentenza impugnata aveva ritenuto provati lo svolgimento, da parte sua, dell’attività di autotrasportatore per dieci anni (dal 2001 al 2010), documentata con l’esibizione dei contratti di lavoro, delle buste paga e dei certificati Cud, la percezione delle retribuzioni (pari a 22.659 nell’anno 2009) e il versamento dei contributi previdenziali, nonché lo stato di disoccupazione conseguito all’evento dannoso subìto, con perdita, per il futuro, del reddito precedentemente prodotto. Pertanto, a suo dire, anziché procedere alla liquidazione equitativa in proporzione al danno non patrimoniale, la Corte d’appello avrebbe dovuto liquidare il danno patrimoniale futuro (certo) da lucro cessante per perdita della capacità lavorativa specifica mediante le necessarie operazioni di capitalizzazione, tenendo conto della misura del reddito, del grado di incapacità del cento per cento e degli anni di vita lavorativa.
La Suprema Corte accoglie le doglianze e fa chiarezza sul danno da perdita della capacità lavorativa
Doglianze come detto fondate secondo gli Ermellini, che fanno chiarezza sulla complessa materia. In tema di danni alla persona, premettono in giudici del Palazzaccio, “l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, pur integrando (non già la lesione di un modo di essere del soggetto rientrante nell’aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, bensì) un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, costituisce, tuttavia, un danno patrimoniale ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica (e piuttosto derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica), il quale, sempre che ne sia accertata la sussistenza, anche in base ad elementi utili ad un giudizio prognostico presuntivo prospettati dal danneggiato, va stimato con valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 cod. civ”.
E sul danno da lucro cessante per la perdita dei redditi futuri del lavoro svolto prima dell’illecito
Il distinto danno patrimoniale da lucro cessante, invece, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell’evento dannoso, “va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che il sinistro abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito” prosegue la Suprema Corte. In tal caso, il reddito perduto dalla vittima (più precisamente, le retribuzioni, comprensive di tutti gli elementi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici, che essa avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base allo specifico rapporto di lavoro perduto), “costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente, benché ridotta, capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà (il cui peso deve essere adeguatamente considerato), un’altra attività lavorativa retribuita.
Il corretto calcolo del danno da perdita della capacità lavorativa specifica
“Questo danno, in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 cod. civ. – continua la Cassazione – deve essere pertanto liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano”.
Risarcimento non escluso se il danneggiato era disoccupato non per sua colpa e temporaneamente
L’applicazione di questi criteri, che presuppongono, come detto, in linea generale, un rapporto lavorativo in atto al momento dell’evento dannoso, non è tuttavia esclusa, puntualizza la Suprema Corte, nell’ipotesi in cui, come nella fattispecie, “pur mancando il presupposto della specifica attualità del rapporto di lavoro al momento dell’illecito, tuttavia lo stato di disoccupazione, oltre a non dipendere dalla volontà o dalla colpa del lavoratore (bensì da vicende incolpevoli riguardanti la sua persona o da vicende oggettive di impresa), sia inoltre contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l’illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un’attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito”.
E qui gli Ermellini ricordano il principio affermato dalla stessa Suprema Corte secondo cui, “ai fini della liquidazione del danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa di un soggetto adulto che, al momento dell’infortunio, non svolgeva alcun lavoro remunerato, il giudice del merito, nel procedere con equo apprezzamento delle circostanze del caso, deve chiedersi: se possa ritenersi che la vittima, qualora fosse rimasta sana, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale; se i postumi residuati dall’infortunio consentano o meno lo svolgimento di un lavoro confacente al profilo professionale del danneggiato”.
La vittima era disoccupata perché l’impresa era fallita e aveva ricevuto una nuova offerta di lavoro
Pertanto, vengono al dunque i giudici del Palazzaccio, “in conformità a tale principio – e traendone le conseguenti implicazioni – il giudice del merito, nella fattispecie in esame, avrebbe dovuto tenere conto delle seguenti accertate circostanze: che il danneggiato aveva sempre svolto l’attività lavorativa di autotrasportatore; che al momento dell’illecito si trovava in stato di disoccupazione non per propria volontà o colpa, ma per vicende oggettive che avevano colpito l’impresa datrice di lavoro, la quale era stata dichiarata fallita; che comunque sussisteva la ragionevole certezza, se non la positiva dimostrazione, che lo stato di disoccupazione sarebbe cessato, con ripresa della medesima attività lavorativa, ove non vi fosse stato l’illecito, per avere egli ricevuto una proposta di assunzione da un’altra impresa nel novembre del 2010, in concomitanza con la cessazione del trattamento di disoccupazione”.
La Corte d’appello invece aveva indebitamente attribuito rilievo negativo alla sua disoccupazione
Invece, “pur dando espressamente conto dell’accertamento delle predette circostanze positive (le quali neutralizzavano quella negativa della mancanza del rapporto lavorativo in atto al momento dell’illecito) la Corte territoriale, in modo contraddittorio, non ha tenuto conto, nella liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, delle retribuzioni che (omissis) avrebbe potuto conseguire in base all’attività lavorativa perduta a causa dell’illecito, ma, al contrario, ha indebitamente attribuito rilievo negativo alla situazione di disoccupazione (contraddicendo la premessa sulla base della quale tale situazione non avrebbe potuto ridondare a detrimento del creditore) e alla residua capacità lavorativa generica indicata nella relazione peritale (la quale avrebbe potuto assumere limitato rilievo al più in sede di quantificazione del risarcimento, da operarsi comunque ponendo alla base del calcolo le retribuzioni non conseguite a causa del lavoro perduto) ed ha liquidato irragionevolmente il danno patrimoniale di cui era stato invocato il ristoro nella misura di un terzo del danno non patrimoniale già liquidato dal primo giudice, così incorrendo sia nel dedotto vizio di motivazione costituzionalmente rilevante sia nella denunciata violazione di legge”.
Il principio di diritto
Nell’accogliere dunque i due motivi del ricorso, cassando la sentenza impugnata sul punto e rinviando la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, la Cassazione, con l’occasione, ha infine pronunciato il seguente principio di diritto: “in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 cod. civ., la necessità che il danno da perdita della capacità lavorativa specifica sia liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa andata perduta a causa dell’illecito o dell’inadempimento (salva l’esigenza di tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere un’altra attività lavorativa retribuita), sussiste non solo nell’ipotesi di cessazione di un rapporto lavorativo in atto al tempo dell’evento dannoso, ma anche nell’ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza o la positiva dimostrazione che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale“.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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