Il danno iure hereditatis subito dalla vittima di un fatto illecito, e rivendicato iure hereditatis dai suoi congiunti, nel caso in cui il loro caro sia deceduto in conseguenza delle lesioni subite a causa del sinistro in questione, non va ancorato e parametrato sull’effettiva durata della sua vita ma sulla base del criterio dell’aspettativa di vita e applicando le tabelle per la valutazione del danno biologico permanente.
E’ un chiarimento importante quello apportato in materia dalla Cassazione con la sentenza 10902/23 depositata il 26 aprile 2023 e nella quale la Suprema Corte ha affrontato il caso della morte del danneggiato, dopo un sensibile lasso di tempo dall’evento, a causa delle lesioni patite in seguito al fatto illecito.
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Un uomo contrae l’HIV a causa di sangue infetto e alcuni anni dopo muore per la malattia
L’uomo aveva contratto il virus dell’HIV a causa di una trasfusione di sangue infetto e, per tale ragione, aveva ottenuto dalla Commissione medica preposta l’indennizzo ex. Legge 210/1992, con pieno riconoscimento del nesso di causa tra la trasfusione subita e la malattia contratta. A causa della quale, tuttavia, nel giugno del 2009, era deceduto.
I suoi familiari avevano quindi citato in giudizio, sia in proprio che iure hereditatis, il Ministero della Salute, per vedersi riconosciuto il danno differenziale, e quindi il danno biologico subito in seguito alla condotta illecita del Ministero stesso e i danni riflessi e tanatologici. Domanda accolta sia in primo sia in secondo grado.
La quantificazione del danno iure hereditatis
Il Ministero tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione contestando come unico motivo di doglianza il fatto che la sentenza avesse parametrato il danno iure hereditatis non già all’effettiva esistenza in vita del danneggiato, ma al parametro dell’aspettativa di vita, applicando “acriticamente” le tabelle del danno biologico permanente.
In particolare, il Ministero della Salute proponeva ricorso censurando, ex. art. 360 n. 3 cpc, la violazione degli articoli 1223, 1226, 2056 e 2057 cc affermando che il danno iure hereditatis doveva essere ridotto in ragione della morte della vittima primaria, o meglio parametrato alla sua effettiva esistenza in vita.
Ma la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, evidenziando innanzitutto come la giurisprudenza richiamata dal Ministero a sostegno delle sue tesi, e segnatamente una sentenza della stessa Cassazione, la n. 41933/21, facesse riferimento all’ipotesi di morte sopraggiunta per circostanze diverse dalle lesioni patite e non, come nel caso di specie, in ragione proprio del danno subito.
Se la morte è dovuta al fatto illecito contestato, il calcolo va fatto sulle probabilità di vita
Gli Ermellini chiariscono che la distinzione è essenziale per comprendere in che termini parametrare il danno. Infatti, se la morte è conseguenza del fatto illecito, il calcolo del danno va fatto sulle probabilità che aveva il danneggiato di sopravvivere e non sull’effettiva durata della sua vita. Ove così non fosse, infatti, il danneggiante godrebbe di un vantaggio illecito, trovandosi a risarcire meno e avvantaggiandosi della morte da lui stesso cagionata.
In conclusione la Cassazione ha quindi riaffermato questo principio di diritto: “in tema di liquidazione del danno biologico “iure successionis”, il principio secondo cui l’ammontare del risarcimento dev’essere parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato si applica nel solo caso in cui quest’ultimo sia deceduto per causa non ricollegabile alla menomazione conseguente all’illecito, mentre, laddove la morte sia intervenuta, dopo una temporanea sopravvivenza, in conseguenza diretta dell’evento lesivo, la liquidazione va operata secondo le tecniche di valutazione probabilistica proprie del danno permanente”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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