La perdita di una persona, vittima nello specifico di un tragico incidente stradale, che lavorava nell’impresa di famiglia comporta automaticamente per quest’ultima un danno patrimoniale, che va risarcito. E nulla rileva il fatto che i danneggiati non abbiano assunto un sostituto.
Con una ordinanza di notevole rilievo giuridico, la n. 1386/23 depositata il 18 gennaio 2023, la Corte di Cassazione, accogliendo il relativo motivo del ricorso dei congiunti del defunto, ha cassato sul punto una “sentenza shock” della Corte d’Appello di Napoli che aveva assecondato le tesi altrettanto “discutibili”, per usare un eufemismo, di Generali.
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Una causa per il risarcimento mossa dai familiari di un giovane morto in un sinistro stradale
Con atto di citazione del 2014, i familiari di un giovane, deceduto in seguito ad un terribile incidente stradale occorso nel 2011,. avevano citato in causa Generali Italia quale compagnia mandataria all’epoca nella regione Campania per il Fondo di Garanzia per le vittime della strada e gli eredi di un altro giovane, anche lui deceduto, che si trovava alla guida dell’auto, non assicurata, nella quale il loro caro era trasportato al momento della rovinosa e fatale uscita di strada.
Il tribunale nel 2017 aveva condannato la compagnia a risarcire ai familiari della vittima la somma di 530.711 euro, ma la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 2020, accogliendo parzialmente il gravame di Generali, aveva sensibilmente ridotto il risarcimento dovuto. Di qui il ricorso per Cassazione dei congiunti del giovane, con svariati motivi di doglianza.
il mancato ristoro del danno patrimoniale, la vittima lavorava nel bar di famiglia
Quello che qui preme, e che peraltro è stato l’unico ad essere accolto, è il quinto nel quale i ricorrenti hanno lamentato il rigetto da parte della Corte territoriale della domanda di risarcimento del danno patrimoniale, che invece il Tribunale aveva riconosciuto nella misura di centomila euro. I congiunti del giovane avevano infatti sostenuto e provato, fin dall’atto di citazione di primo grado, che il loro caro, fin da giovanissimo, da quando aveva 14 anni, aveva lavorato nel bar di famiglia portando quindi alla stessa un importante contributo patrimoniale.
Generali, nel suo appello, pur dando atto che il ragazzo “desse una mano nel bar di famiglia”, aveva sostenuto che il suo lavoro potesse ricondursi all’art. 315 del codice civile (che riguarda i doveri dei figli verso i genitori, insomma avrebbe fatto solo il suo dovere), asserendo anche che non sarebbe stata fornita la prova del costo per rimpiazzarlo, cioè di avere assunto un nuovo collaboratore al suo posto.
La Corte d’appello aveva sposato tale tesi, affermando che, testuali parole, “avendo il figlio il dovere giuridico di collaborare all’impresa familiare, la sua morte non avrebbe arrecato alcun danno patrimoniale”. Per i suoi familiari quindi, i giudici territoriali avrebbero commesso due errori di diritto: il primo nell’affermare che la morte di un familiare impiegato nell’impresa di famiglia non costituisca un danno patrimoniale, in quanto il lavoro nell’attività di famiglia costituirebbe un dovere e non una facoltà, il secondo nell’affermare che per ottenere il risarcimento de danno patrimoniale occorra provare il costo del rimpiazzo dell’utilità perduta.
La collaborazione nell’impresa di famiglia è di natura economica, come ogni lavoro
E la Cassazione ha dato loro ragione piena definendo “alquanto singolare” la motivazione con cui i giudici territoriali hanno escluso ogni risarcimento al riguardo. Che si concludeva così: “non risulta provato né che i genitori abbiano avuto bisogno di sostegno, né che abbiano ricevuto aiuto economico del defunto, apparendo semmai verosimile il contrario”. Queste argomentazioni, spiegano gi Ermellini, “contraddicono quel che era stato il punto di partenza dei giudici stessi nell’affrontare il relativo motivo di gravame di Generali, cioè l’essere “incontroverso” che la vittima aveva “dato una mano” nell’impresa familiare, il bar di famiglia”. Da tale dato assodato, infatti, prosegue la Suprema Corte, discende infatti, “che il figlio aveva collaborato in tale attività, e infatti subito dopo il giudice d’appello abbandona la sua “espressione minimalista” per riconoscere una vera e propria collaborazione e ricondurla all’adempimento dei doveri ex articolo 315 c.c.”.
Dunque, il giovane rimasto vittima del tragico indicente aveva collaborato all’impresa di famiglia “e la sua collaborazione, di natura intrinsecamente economica come è sempre un’attività lavorativa, era venuta meno per il suo decesso – sottolinea la Cassazione – Non si vede, allora, come si possa negare che ciò abbia procurato un danno patrimoniale”. Quest’ultimo, ricordano infatti i giudici del Palazzaccio, trova la sua natura “nella perdita, una deminutio, di quel che anteriormente, in senso contrario, costituiva un plus economico a favore del danneggiato”.
La perdita del figlio impegnato nell’impresa familiare comporta automaticamente un danno emergente
I giudici territoriali, concludendo che non sarebbe risultato provato che i genitori avessero avuto bisogno del sostegno del figlio, né che abbiano ricevuto aiuto economico da questi, contraddicono quindi se stessi laddove avevano riconosciuto che il defunto aveva dato “collaborazione” all’impresa di famiglia. “Né, d’altronde, è sostenibile, come pure adduce con un rapido inciso la Corte d’Appello, che la perdita di una prestazione economicamente valevole non costituisca danno perché tale prestazione era dovuta a titolo gratuito: la gratuità, per chi la rende, della debenza della prestazione non espunge, infatti, per chi la riceve, il valore patrimoniale della prestazione stessa, e dunque la sua perdita altera – a ben guardare, anche in misura superiore che per una prestazione a pagamento, necessitante infatti un corrispettivo – in senso diminutivo la complessiva sfera giuridica di quest’ultimo, id est le crea un danno emergente”.
E il “lucro cessante” va risarcito anche se i danneggiati non hanno assunto un sostituto
Infine, gli Ermellini definiscono incomprensibile anche l’ulteriore argomentazione adottata dal giudice d’appello relativa a un difetto di prova della “perdita di una unità di forza lavoro e che, quindi, i coniugi abbiano sostenuto il cosiddetto costo di rimpiazzo, assumendo un altro collaboratore”. La Suprema corte condivide in pieno il richiamo al riguardo, da parte dei ricorrenti, dell’art. 1223 c.c.. Esso, spiega la sentenza, “ripartisce l’obbligo di risarcimento del danno tra il danno emergente e il lucro cessante, che rispettivamente qualifica “perdita subita” e “mancato guadagno” in un collocamento casuale immediato e diretto. La “ratio” è di pervenire ad un totale ripianamento della sfera giuridica lesa al danneggiato; il che, tuttavia, non significa esigere una ricostruzione assolutamente identica alla sfera giuridica anteriore al pregiudizio effettuata da parte del danneggiato stesso. Quest’ultimo, infatti non è tenuto ad attivarsi in tal senso, potendo optare per un ripianamento compiuto direttamente “per equivalente” tramite, appunto, una pretesa risarcitoria che non è a monte vincolata dia un anteriore presupposto di recupero per cui il danneggiato stesso si debba attivare”.
Il risarcimento da danno da fatto illecito, vanno infatti a concludere i giudici del Palazzaccio, “ha la funzione di porre il patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si sarebbe trovato senza l’evento lesivo stesso e, quindi, trova presupposto e limite nell’effettiva perdita subita da quel patrimonio, in conseguenza del fatto stesso, indipendentemente dagli esborsi materialmente effettuati”. Ragion per cui, “la “perdita subita” ex articolo 1223 c.c. non può considerarsi indicativa solo degli esborsi monetari già effettuati, ma anche di quelli futuri”.
Non ha pertanto alcun rilievo, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di appello, il fatto che il defunto “sia stato sostituito con un “costo di rimpiazzo”, né rileva che i danneggiati abbiano deciso di interrompere l’attività commerciale. Queste argomentazioni, con cui il giudice d’appello, a ben guardare, respinge l’an del danno, configgono con il dettato dell’art. 1223”. Né tantomeno, aggiunge la Cassazione, “è condivisibile la pretesa, per “aprire le porte” al risarcimento, di provare che la morte del giovane abbia comportato perdita proprio di “una unità di forza-lavoro”, non occorrendo che la “collaborazione” resa nell’impresa familiare raggiungesse un livello quantitativo pari all’attività lavorativa che avrebbe posto in essere una persona assunta”: “l’assunzione di un nuovo collaboratore” per citare la sentenza impugnata.
Insomma, la Corte d’appello “non ha applicato in modo corretto l’articolo 1223 c.c. e così ha erroneamente escluso il danno patrimoniale relativo alla perdita della collaborazione della vittima nell’impresa di famiglia” conclude la Suprema Corte, che, prima di cassare la sentenza per questo motivo di ricorso e rinviare la causa alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, nella circostanza ha anche pronunciato un principio di diritto a cui dovrà attenersi il giudice del rinvio: “per ottenere il risarcimento della “perdita subita” ai sensi dell’articolo 1223 c. c. non occorre che il danneggiato si sia preventivamente attivato per ripianare detta perdita così da dimostrare di avere sostenuto le spese allo scopo necessarie, non sussistendo alcuna obbligazione in tal senso”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Categoria:
Incidenti da Circolazione StradaleCondividi
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