Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate. E’ una sentenza da “pugno di ferro” a profonda tutela dei lavoratori, soprattutto quelli in posizione più “debole”, quella, la n. 3724/22, depositata dalla Corte di Cassazione , seconda sezione penale, il 2 febbraio 2022.
Indice
Datori di lavori accusati di estorsione dai dipendenti
Con sentenza del 2020 la Corte d’appello de L’Aquila, confermando peraltro quella pronunciata dal Giudice per l’Udienza Preliminare del Tribunale di Sulmona, aveva assolto i due titolari di un’impresa dal reato, appunto, di estorsione che era stato loro contestato.
Le parti civili, due loro dipendenti, hanno quindi proposto ricorso per Cassazione, lamentando violazione di legge con riguardo all’art. 629 del codice penale e, più precisamente, di un principio di diritto più volte affermato dalla Corte di legittimità , che ravvisa gli estremi dell’estorsione nella condotta del datore di lavoro il quale, approfittando delle condizioni occupazionali generali, costringe i sottoposti, con minaccia velata di licenziamento, ad accettare condizioni di lavoro pessime.
La minaccia implicita nei loro confronti e le inadeguate condizioni
Secondo i ricorrenti la sentenza del giudici territoriali non aveva rilevato la presenza di una minaccia implicita né aveva tenuto conto delle condizioni retributive inadeguate rispetto alle condizioni di lavoro disumane. Inoltre, censuravano mancanza di motivazione relativamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito e posto a sostegno dell’atto di appello e alla peculiarità della loro posizione rispetto al generalizzato clima di intimidazioni e di pressioni sul posto di lavoro nei confronti di tutti gli altri lavoratori, la mancata valutazione di tutta una serie di altri elementi, anche testimoniali, in particolare la testimonianza resa da un’altra dipendente circa la sussistenza della minaccia di licenziamento in caso di mancata ottemperanza alle direttive aziendali, con particolare riguardo al prolungamento dell’orario di lavoro senza corresponsione di arretrato. Il tutto con la precisa consapevolezza – agitata nei confronti dei lavoratori – della estrema difficoltà di trovare un nuovo impiego.
E la Suprema Corte ha dato loro piena ragione. La Corte di appello, fanno nostre gli Ermellini, aveva fatto propria la ricostruzione del Gup, che aveva riconosciuto come i due dipendenti, a detta dei numerosi testimoni, prestassero il proprio servizio oltre l’orario di lavoro, in maniera sostanzialmente ininterrotta (anche per venti ore al giorno), espletando compiti non inerenti alle loro mansioni e subendo le continue vessazioni dai due titolari, senza che venisse loro corrisposta la retribuzione delle ore lavorative effettivamente espletate.
E risultava anche acclarato come il rispetto di tali condizioni di lavoro non retribuite venisse posta come opzione alternativa alla prospettazione per i lavoratori della “libertà” di lasciare il proprio impiego. E infatti i giudici del merito avevano riconosciuto che la compresenza di tali elementi poteva indurre a ritenere configurata l’estorsione, così come contestata nel capo di imputazione, e pur tuttavia, censurano i giudici del Palazzazzio, “essi ritengono di superare gli insegnamenti della Corte di legittimità osservando che le e-mail in atti non avrebbero evidenziato tale connotato”.
Ai dipendenti non si lasciava libera scelta
In esse, infatti, notava la Corte d’Appello, “il datore di lavoro, dopo avere impartito delle direttive, specificava che se qualcuno non era d’accordo era libero di andarsene, facendo, quindi, esplicito riferimento alla libertà decisionale del lavoratore, nel caso in cui lo stesso non condividesse le direttive impartite”.
Tali espressioni non si sarebbero potute interpretare come minaccia di licenziamento, “neppure larvata”. Inoltre, secondo la Corte territoriale non sarebbero stati acquisiti elementi tali da rappresentare una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le particolarità del contesto economico e, specificamente, del settore alberghiero sulmonese, nonché dell’ambiente familiare di provenienza”. Insomma, la Corte d’appello aveva escluso la sussistenza della minaccia facendo leva sulla possibilità di scelta lasciata al lavoratore dal datore di lavoro, quanto alla possibilità di proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizioni di lavoro.
L’estorsione richiede la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua volontà
“L’argomentazione però – obietta la Cassazione -. non considera che la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che, ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato. Proprio da tale caratteristica propria della minaccia discende che l’estorsione è il tipico reato per la cui perpetrazione è richiesta la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua volontà. Da ciò discende che la rimessione al soggetto passivo della scelta della condotta da adottare non è considerazione cui poter fare ricorso al fine di escludere la sussistenza della minaccia e – con essa – dell’estorsione, così che l’argomento in esame, come utilizzato dalla Corte di appello, è certamente fallace, con ciò configurandosi il vizio di violazione di legge”.
Vizio, questo che non si può ritenere superato dal fatto che nelle e-mail non si minacciasse espressamente il licenziamento, ma si affermasse che il lavoratore era “libero di andare via”, “in quanto una tale precisazione – prosegue la Suprema Corte – perde di vista – in ciò incorrendo nel vizio di manifesta illogicità – il senso evidente della frase, che pone il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni di lavoro imposte dal datore di lavoro o di perdere il lavoro, risultando indifferente che tale evenienza si possa realizzare per una decisione “volontaria” del lavoratore o a iniziativa del datore di lavoro”.
Le condizioni di lavoro prospettate in alternativa al licenziamento erano inique
Quest’ultima evidenza, incalzano gli Ermellini, assume “rilievo penale” perché, nel caso in esame, “le condizioni di lavoro indicate come alternativa alla perdita del lavoro sono inique e illegittime, per come pacificamente riconosciuto dagli stessi giudici di merito, in quanto intese a sottoporre il lavoratore a turni di lavoro ininterrotti, ben oltre gli orari pattuiti, per espletare attività non rientranti nelle proprie mansioni, con un trattamento retributivo del tutto inadeguato rispetto alle ore lavorative effettivamente svolte e alle attività effettivamente espletate. Il tutto accompagnato dalle condotte vessatorie dei due imputati”.
In conclusione, a fronte di un tale “pacifico” stato di fatto, va ribadito – asserisce la Cassazione – che “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate”. Un principio di diritto che fa risaltare come i giudici di merito avessero erroneamente escluso il reato sul presupposto che nel caso concreto mancasse una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese”.
“I giudici di merito – conclude la Suprema corte – ritengono che la configurabilità del reato richieda – oltre agli elementi costitutivi propri dell’estorsione – anche un ulteriore requisito, individuato in una particolare condizione soggettiva della persona offesa, indicata in una non meglio specificata “peculiare condizione di debolezza”, dovuta al contesto economico di appartenenza e “all’ambiente familiare di provenienza”. Ma tale ulteriore requisito non è richiesto al fine della configurazione del reato, che si realizza nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che veste rispetto al lavoratore subordinato e alla strutturale condizione a lui favorevole della prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro. Ciò che ammanta di rilievo penale una condotta siffatta non va rinvenuta nelle condizioni economico-ambientali o nelle condizioni personali del lavoratore, ma nel fatto che il datore di lavoro coarti il lavoratore nel senso di accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia dell’interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata”. La sentenza è stata pertanto cassata con rinvio.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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