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Non va esente da responsabilità, e nella migliore delle ipotesi (se la sua condotta non cagiona danni alla salute delle persone), dalla condanna per omissione d’atti d’ufficio la guardia medica che rifiuta la visita domiciliare a un paziente che non può muoversi e che chiede l’intervento in ragione di gravi patologie.

E a nulla rileva il fatto che il collega che ha effettuato la visita al suo posto abbia constatato come le condizioni dell’anziana non fossero da “codice rosso”, previa però la prescrizione di un’idonea terapia.  A richiamare con forza i sanitari al loro dovere la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45057/22 depositata il 25 novembre 2022.

Medico di continuità assistenziale condannato per aver rifiutato una visita a domicilio

Un medico di continuità assistenziale, l’ex Guardia medica per intenderci, era stato condannato per omissione di atti d’ufficio (art. 328 cod. pen.) dal Tribunale di Torino per essersi rifiutato di recarsi a casa di una paziente anziana e impossibilitata a muoversi, di cui il figlio, nella telefonata al 118, aveva denunciato gravi difficoltà respiratorie.

Sentenza sostanzialmente confermata anche dalla Corte d’Appello torinese, che l’aveva riformata solo riducendo la pena principale e quella accessoria inflitte all’imputato in primo grado.

L’imputato ricorre per Cassazione sostenendo che si trattava di “codice bianco”

Il medico ha proposto ricorso per Cassazione deducendo errata applicazione dell’art. 328 cod. pen. sul piano della tipicità oggettiva e correlato vizio di motivazione. Il sanitario ha premesso che, in base alla normativa regolamentare e agli accordi collettivi, non sussisteva un obbligo di visita domiciliare, essendo la relativa decisione rimessa alla discrezionalità del dottore, in base alla valutazione del caso concreto, asserendo che la sentenza impugnata avrebbe contraddittoriamente usato l’argomento del cosiddetto “codice bianco”, speso nei giudizi di merito per evidenziare l’assenza di gravi rischi per la salute della donna.

A suo dire nella motivazione del verdetto sarebbe stata infatti valorizzata la testimonianza della centralinista del 118, la quale aveva precisato che a tutte le chiamate veniva assegnato tale codice, e si sarebbe invece taciuto che dalle risultanze processuali era emerso che il suo collega, che si era recato a casa della donna dopo il sui diniego, aveva confermato, all’esito della visita, che si trattava di un codice bianco e dunque della bontà della sua diagnosi, secondo cui non sussisteva un rischio di danni gravi per la salute.

Inoltre, il ricorrente ha eccepito l’erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione, relativamente all’elemento soggettivo del reato, sostenendo che per la sussistenza del dolo occorre che l’agente rifiuti di porre in essere un atto che sa di dover compiere senza ritardo, ciò che nella fattispecie, secondo sua la valutazione, rivelatasi peraltro corretta ex post, non era.

Ma per la Suprema Corte il ricorso è manifestamente infondato. Muovendo dall’individuazione di quello che va ritenuto, in concreto, “l’atto dell’ufficio”, la cui omissione, si ricorda, è suscettibile di assumere rilievo penale, gli Ermellini convengono con il ricorrente sul fatto che la visita domiciliare “rappresenta soltanto una delle opzioni attraverso le quali il medico di continuità assistenziale può adempiere al suo dovere, ben potendo egli – laddove non la ritenga necessaria – limitarsi ad un consulto telefonico”.

 

La visita a casa è a discrezione del dottore, ma il medico non si era prestato nemmeno al consulto telefonico

Al riguardo, la Cassazione riporta l’art. 13, comma 3, dell’accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica ed emergenza territoriale, reso esecutivo ai sensi dell’art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, il quale postula un “apparente automatismo” ove stabilisce che il medico di continuità assistenziale “è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che siano chiesti direttamente dall’utente entro la fine del turno al quale è preposto”.

Tuttavia, infatti, proseguono i giudici del Palazzaccio nell’inquadramento normativo della questione, altre fonti normative, rilevanti nel caso concreto, puntualizzano che, come d’altronde logico, “il medico deve valutare, sotto la propria responsabilità, l’opportunità di fornire un consiglio telefonico, recarsi al domicilio per una visita, invitare l’assistito in ambulatorio”, citando il Manuale per il medico di continuità assistenziale approvato dal Comitato permanente aziendale-Azienda USL della Valle d’Aosta.

Nel caso di specie, si configuravano, pertanto, tre opzioni al cui interno l’imputato era chiamato a scegliere, in base al suo apprezzamento della situazione concreta. “Ebbene, posto che la terza possibilità era fuori discussione a causa dell’età e delle condizioni della pazientespiega la Suprema Corte, ricordando, come già detto, che la signora per la quale era stato richiesto l’intervento era molto anziana, aveva riportato una frattura alle costole e non era dunque nelle condizioni di recarsi a una visita ambulatoriale, “dal tenore della sentenza di secondo grado emerge come l’imputato non si fosse nemmeno prestato ad un consulto telefonico” sottolineano però gli Ermellini: “(omissis) neppure ha rivolto consigli terapeutici puntuali, tale non potendo ritenersi l’alternativa di chiedere l’intervento di un’ambulanza ovvero, se la situazione fosse rimasta stazionaria, rivolgersi, il giorno dopo, al medico di base” avevano accertato i giudici territoriali.

 

Il quadro clinico della paziente avrebbe imposto di recarsi subito a casa sua

La Cassazione ribadisce che la necessità e l’urgenza di effettuare una visita domiciliare, in virtù di quanto previsto dal citato l’art. 13 dell’accordo collettivo nazionale, è rimessa alla valutazione discrezionale del sanitario di guardia, sulla base della propria esperienza, ma tale valutazione sommaria, rimarcano con forza i giudici del Palazzaccio, “non può prescindere dalla conoscenza del quadro clinico del paziente, acquisita dal medico attraverso la richiesta di indicazioni precise circa l’entità della patologia dichiarata: richiesta che, nel caso di specie, non risulta essere stata formulata dall’imputato.

L’unica opzione residua era, dunque, la visita domiciliare, in relazione alla cui mancata esecuzione l’imputato non ha addotto – tantomeno documentato – alcun impedimento durante le due fasi del giudizio di merito”.  La censura del ricorrente, osserva infatti la Suprema Corte, riguardava soltanto la mancanza del requisito dell’urgenza, insito nella necessità – secondo il dettato dell’art. 328 cod. pen. – che l’atto vada “compiuto senza ritardo”.

La Cassazione rammenta anche che, se la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente la connotazione discrezionale della valutazione del medico, riserva tuttavia al giudice il potere di sindacarla quando emergano elementi che evidenzino l’evidente erroneità di quest’ultima, potere che nel caso in esame è stato esercitato dal giudice dell’appello, laddove ha scritto: “È evidente che, nel caso di specie, il quadro clinico descritto dall’utente avrebbe imposto di recarsi immediatamente al domicilio della malata, affetta da difficoltà respiratorie in un contesto di età avanzata e frattura alle costole”.

 

Irrilevante l’accertamento da parte di un collega, ex post, che si trattasse di un codice bianco

Né, secondo gli Ermellini, rileva il fatto che la valutazione dell’imputato, che aveva evidentemente escluso l’urgenza della visita, fosse risultata ex post corretta, essendo stata validata dal collega che, all’esito della visita, aveva confermato il codice bianco assegnato dalla centralinista che diramava le telefonate in entrata al 118.

Quest’ultima notazione tralascia di considerare come su questo aspetto il giudice di appello abbia fornito una risposta puntuale, con motivazione completa ed esente da vizi di illogicità. In sentenza si trova infatti replicato che il suddetto codice bianco era stato confermato in quanto il secondo medico, che si era recato a seguito dell’inerzia dell’imputato a casa della donna, diagnosticandole una bronchite, aveva prescritto “idonea terapia”.

Dunque, premesso che l’omissione di atti d’ufficio ha natura di reato di pericolo, sulla base della ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito, non sindacabile dalla Corte di cassazione, tale pericolo (nel caso di specie, per la salute dell’assistito) sussisteva al momento della realizzazione della condotta omissiva, a nulla rilevando la sua successiva neutralizzazione ad opera di un terzo (nella specie, il secondo medico contattato)”.

L’omissione d’atti d’ufficio è un reato di pericolo che sussisteva al momento del rifiuto

Per la stessa ragione, manifestamente infondata secondo la Suprema Corte risulta altresì la deduzione formulata nel secondo motivo di ricorso, tesa a negare la sussistenza del dolo,poiché l’imputato non si sarebbe rappresentato la necessità di compiere l’atto senza ritardo, non avendo egli ritenuto urgente la condizione clinica della donna. Infatti, in base alla ricostruzione operata dai giudici di merito, l’indifferibilità dell’atto dell’ufficio era ragionevolmente ipotizzabile al momento della telefonata, alla luce delle circostanze del fatto (quali le condizioni e l’età della donna, nonché la tipologia di sintomi riferita dal figlio), con la conseguenza che il soggetto agente non poteva che essersela rappresentata.

Né, come ovvio, può incidere sull’elemento soggettivo, elidendolo, la circostanza che, sempre sulla base della ricostruzione fattuale del giudice di appello, insindacabile in quanto compiutamente e coerentemente motivata, il pericolo fosse venuto meno, per effetto del successivo intervento, in chiave terapeutica, del secondo medico di continuità assistenziale”. Dunque, condanna de dottore confermata.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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