Quando scatta la prescrizione per una causa di lavoro? Ossia, entro quanto tempo il lavoratore deve avviare la vertenza? Con una sentenza di assoluta rilevanza, che ha accolto il ricorso di due lavoratrici, la n. 26246/22 depositata il 6 settembre 2022, la Cassazione, sezione Lavoro, ha chiarito che il periodo utile è di cinque anni, come stabilito per legge, ma che il termine quinquennale decorre non da quando si sono verificati i fatti in questione ma dalla fine del rapporto, nella considerazione del fatto che la parte lesa, temendo “ritorsioni”, finanche il licenziamento, non sia nelle piene possibilità di far valere le proprie ragioni mentre si trova ancora alle dipendenze del titolare “contestato”.
E questo alla luce delle recenti riforme legislative (Job Act, Legge Fornero) che, secondo gli Ermellini, hanno eroso le pregresse forme di tutela del posto di lavoro.
Indice
Due lavoratrici avviano una vertenza retributiva contro la datrice di lavoro
La vicenda. Con sentenza del 18 dicembre 2018 la Corte d’appello di Brescia – confermando di fatto la decisione di primo grado ad eccezione delle spese, che ha compensate tra le parti anziché porle in capo esclusivamente alle ricorrenti -, aveva rigettato l’appello di due lavoratrici di un’azienda bresciana del settore agro alimentare contro per l’appunto il pronunciamento del Tribunale, e con esso le loro domande nei confronti della datrice di lavoro relative alle differenze retributive che spettavano loro per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno: un rigetto dovuto al fatto che le domande “eccedevano” la prescrizione quinquennale, cioè erano state proposte troppo tardi, più di cinque anni dopo i fatti contestati.
I giudici territoriali rigettano le domande per intervenuta prescrizione
Come già aveva fatto il Tribunale, anche la Corte d’Appello aveva ritenuto, ai fini della decorrenza della prescrizione durante la sua vigenza, anche dopo la novellazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970, per effetto della legge n. 92/2012 (la cosiddetta “riforma Fornero”) e del decreto legislativo n. 23/2015 (il cosiddetto Jobs Act), la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro: nozione acquisita dal diritto vivente per designarne la regolazione con una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione contrattuale alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate, affidandone, sul piano processuale, al giudice il sindacato e la possibilità di rimuoverne gli effetti.
In altri termini, la Corte bresciana aveva negato la ricorrenza di una possibile condizione psicologica di timore (metus) del lavoratore, tale da indurlo a non avanzare pretese retributive nel corso del rapporto paventando, appunto, reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto. E questo per aver ritenuto la persistenza di una “tutela ripristinatoria piena”, in caso di licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”, ovvero per motivo illecito determinante (che abbia in concreto, al di là delle ragioni apparenti addotte, quale unica ragione le rivendicazioni retributive del lavoratore in corso di rapporto), e irrilevante , sotto questo profilo, un’attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e sussistenti) estranee a queste rivendicazioni retributive. Anche se i giudici alla fine avevano compensato le spese di primo e di secondo grado, dando atto di un’obiettiva incertezza nell’indirizzo giurisprudenziale di merito, in parte orientato nel senso dell’elisione della stabilità reale del rapporto di lavoro.
Ricorso in Cassazione per la non più vigenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro
Le lavoratrici nel 2019 hanno quindi proposto ricorso per cassazione con unico motivo, deducendo violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4 c.c., 18 l. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione dell’art. 18 l. 300/1970 con le riforme della l. 92/2012 e del d.lgs. 23/2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro, tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo.
Le due lavoratici hanno ritenuto pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della legge n. 604/1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità. In via subordinata, infine, le due ricorrenti hanno prospettato una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate all’art. 18 l. 300/1970 dall’art. 1, comma 42 l. 92/2012 e dagli artt. 2, 3 e 4 d.lgs. 23/2015. 2.
Un ricorso che per la Cassazione è fondato. Secondo gli Ermellini per trattare la questione non è necessario “scomodare” la Corte costituzionale, ma essa “ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale” (il cosiddetto “diritto vivente”), nella “responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla legge n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto”.
Se quest’ultima è “la questione in esame”, il suo “focus”, per utilizzare il termine dei giudici del Palazzaccio, è costituito dalla “individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro”.
Dopo una lunga e articolata trattazione dell’argomento, la Suprema Corte conclude che “così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva dell’art. 18 l. 300/1970, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro”.
In via conclusiva, concludono gli Ermellini, deve allora essere escluso, “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.
La decorrenza del termine di prescrizione quinquennale si conta dalla cessazione del rapporto
Da ciò consegue, “non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012.
La sentenza è stata quindi cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia in diversa composizione, e nella circostanza la Cassazione ha anche pronunciato un fondamentale principio di diritto sulla base del quale i giudici del rinvio dovranno decidere nel merito: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
Vedi profilo →
Categoria:
Contenziosi con AziendeCondividi
Affidati aStudio3A
Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.
Articoli correlati