Il ricorso alle presunzioni per accertare in concreto e non in astratto la ricorrenza del danno morale è direttamente proporzionale all’entità ed al tipo di lesioni, essendo ragionevole e intuibile che fatti lesivi di significativa ed elevata gravità siano idonei a provocare forme di “sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale”, e quindi ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento di un danno morale oltre a un danno biologico.
E’ un principio rilevante quello espresso nella sentenza n. 21630/23 depositata il 20 luglio 2023 dalla III sezione Civile della Cassazione, un pronunciamento in generale utile e prezioso perché consente di ripercorrere alcuni orientamenti giurisprudenziali in materia di risarcimento del danno da infortunio, in particolare, la questione relativa per l’appunto alla liquidazione del danno morale, componente del danno non patrimoniale, voce di danno che rappresenta, per così dire, la sofferenza che consegue alla vicenda concreta e che si distingue concettualmente dal danno biologico, che invece è quello, per così dire, fisico.
Indice
Il conducente di un motociclo coinvolto in un grave incidente cita in causa la controparte
Il conducente di un motociclo rimasto convolto in un grave incidente stradale aveva citato in giudizio avanti il tribunale di Palermo il proprietario e il conducente della vettura con cui si era scontrato e la compagnia di assicurazione del veicolo attribuendogli l’esclusiva responsabilità del sinistro per non avergli dato la precedenza a un incrocio travolgendolo a forte velocità, e richiedendo quindi l’integrale risarcimento dei danni patiti, quantificati in 365.577 euro, a fronte di una somma che gli era stata liquidata di soli 65.560 euro. Il giudice, con sentenza del 2015, aveva accolto solo parzialmente la domanda riconoscendogli, ad integrazione di quanto già versatogli dalla compagnia assicurativa della vettura, la somma di ulteriori 64.978,57.
I giudici di merito accolgono solo parzialmente la richiesta risarcitoria
Il danneggiato aveva quindi proposto gravame avanti la Corte d’Appello palermitana, dolendosi del fatto che in primo grado gli fosse stato ascritto il 25 per cento di responsabilità nella causazione del sinistro, della quantificazione del danno a cui era pervenuto il tribunale, del mancato riconoscimento del danno da sofferenza morale, della compensazione delle spese di lite e del mancato riconoscimento delle spese sostenute per l’assistenza legale nella fase stragiudiziale. Ma i giudici di secondo grado, con verdetto del giugno del 2020, avevano rigettato l’impugnazione, confermando la pronuncia di prime cure.
Secondo la corte territoriale, l’appellante non avrebbe provato di aver rispettato le prescrizioni del codice della strada, in particolare dell’articolo 145, comma 1), nonché di aver fatto tutto il possibile per evitare il sinistro. Inoltre i giudici, dopo aver premesso che il danno non patrimoniale è categoria unitaria insuscettibile di suddivisione in sottocategorie, avevano ritenuto che con l’applicazione delle tabelle di Milano all’appellante fosse stata riconosciuta una somma comprensiva anche del danno morale, non essendo stata viceversa dimostrata la ricorrenza dei presupposti per la personalizzazione di quanto liquidato con l’applicazione dei valori tabellari. La Corte aveva quindi riconosciuto la sussistenza dei presupposti per la compensazione delle spese di lite, atteso il concorso di colpa dell’appellante e la notevole differenza tra la somma richiesta e quella che gli spettava effettivamente.
Il danneggiato ricorre per Cassazione anche per il mancato riconoscimento del danno morale
Il motociclista a questo punto ha proposto ricorso anche per Cassazione, affidandosi a quattro motivi di doglianza. Quello che qui preme è il primo nel quale il ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 360,1 comma n. 3, c.p.c., imputando alla Corte d’Appello di aver erroneamente ritenuto che i gravissimi postumi invalidanti subiti fossero tutti riconducibili al punto tabellare accertato medico-legalmente e valutato secondo le tabelle milanesi, e di non avere tenuto invece conto dei gravissimi esiti cicatriziali, pure evidenziati dal consulente tecnico d’ufficio, il quale aveva determinato il danno biologico permanente nella misura del trenta per cento, anche sulla scorta di detto danno estetico; di avergli soprattutto negato il risarcimento del danno da sofferenza morale, ritenendolo a torto assorbito dalla liquidazione personalizzata del danno biologico, nonostante deambulasse zoppicando vistosamente e gli fossero residuate gravissime ferite all’arto inferiore che ne condizionavano la vita relazionale e la vita di coppia; infine, di non aver tenuto conto della incapacità lavorativa conseguente ai postumi riportati che lo avevano costretto a rinunciare a realizzarsi dal punto di vista professionale, con riflessi soprattutto sul piano morale ed esistenziale.
La Suprema Corte accoglie le doglianze e spiega
Doglianza che la Suprema Corte ha ritenuto meritevole di accoglimento. La Cassazione ricorda come le cosiddette “sentenze di San Martino” (Cass. 11/11/2008, numeri 26972, 26973, 26974, 26975) abbiano imposto la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, ritenendolo una “categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate“, e specificando nel contempo che il danno non patrimoniale è destinato a compendiare tutte le componenti in cui può essere sotto-articolato, senza escludere, però, che, a seconda della fattispecie o del tipo di interesse leso, “esso possa assumere contenuto diverso con funzione descrittiva delle conseguenze negative verificatesi”.
“La giurisprudenza più recente – spiegano i giudici del Palazzaccio – ha poi ulteriormente specificato che il danno non patrimoniale è categoria unitaria dal punto di vista giuridico, nel senso che costituisce l’esito di un giudizio sintetico delle ripercussioni negative sul valore-uomo, ma non lo è dal punto di vista fenomenologico, per quanto non sia corretto ridurlo ad una sorta di contenitore di una pluralità di addendi disinvoltamente scindibili e riunibili all’atto della liquidazione”:
La preoccupazione concordemente manifestata dai giudici di legittimità, si riconosce nella sentenza, è quella di evitare “inammissibili duplicazioni risarcitorie”, cioè il rischio di riconoscere alla vittima un “ingiustificato arricchimento ascrivibile direttamente al riconoscimento di una liquidazione che sia il risultato della somma di poste risarcitorie che riguardino il medesimo pregiudizio ovvero derivante “indirettamente” dalla sopravvalutazione delle conseguenze della lezione occorsa”.
La liquidazione del danno non patrimoniale dev’essere unitaria ma integrale
Gli Ermellini precisano però che il fatto che la liquidazione debba essere unitaria “non è, tuttavia, lo schermo dietro cui celare liquidazioni astratte e non trasparenti e men che mai può tradursi in una arbitraria ed immotivata contrazione del risarcimento; ad impedire tale ultima eventualità vi è il fatto che, oltre che unitario, il danno non patrimoniale deve essere onnicomprensivo, cioè deve garantire che la vittima ottenga l’integrale risarcimento del danno, compensandola di tutte le conseguenze pregiudizievoli cagionate dall’illecito; in aggiunta, ove ricorra il danno biologico, deve escludersi che esso esaurisca il danno non patrimoniale alla persona”.
Esso non si esaurisce nel danno biologico e quello morale è autonomo da quello relazionale
“Solo una logica deformante di panbiologizzazione che, per di più, fraintende il significato della onnicomprensività, può indurre a credere che il danno biologico abbia carattere assorbente ed esclusivo di ogni altra voce di danno non patrimoniale alla persona” ribadisce con forza la Suprema Corte, ricordando la sentenza n. 901 del 17 gennaio 2018 della stessa Cassazione, nella quale si sottolinea come tale tesi sia stata sconfessata, “al massimo livello interpretativo”, dalla sentenza n. 235/2014 della Corte costituzionale e dalla riforma del 2016, la cosiddetta legge di Stabilità, la quale, nel modificare la stessa rubrica degli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, “ha esplicitamente riconosciuto l’autonomia del danno morale rispetto a quello dinamico-relazionale. Inoltre, “né l’unitarietà del danno non patrimoniale né la diffusione e l’incentivazione all’uso delle tabelle di liquidazione esonerano il giudice dall’obbligo di rendere trasparenti i criteri di liquidazione adottati e/o da quello di dare contezza del contenuto descrittivo del danno: non solo al fine di rendere intellegibile la funzione del risarcimento, ma anche di verificare il collegamento e la corrispondenza tra le poste ammesse al risarcimento, i criteri di liquidazione adottati e la somma in concreto riconosciuta alla vittima”.
Il giudice poi deve accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato
Pertanto, “soddisfa pienamente l’evocato obbligo di trasparenza il giudice che all’atto della liquidazione del danno accerti l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si sono verificate, e provveda alla loro integrale riparazione, senza incorrere in duplicazioni od omissioni: i giudici sono, infatti, tenuti a mettere al bando ogni automatismo risarcitorio e ad evitare di moltiplicare (e/o inventare nuove voci di danno) per aumentare il risarcimento, ma non devono limitarsi né a banali operazioni algebriche né ad una immotivata riduzione nel quantum del risarcimento”.
E va garantita la personalizzazione in caso di situazioni particolari
I giudici del Palazzaccio, proseguendo nella loro spiegazione, chiariscono ulteriormente, poi, che il perimetro di valutazione è contrassegnato da due limiti: “il divieto di automatismi risarcitori e il divieto di duplicazioni; all’interno si collocano l’integrale riparazione del danno e l’esigenza di garantirne la personalizzazione; con quest’ultima si perfeziona il percorso liquidativo, il quale deve garantire e coniugare l’uniformità di base, cioè assicurare che vittime della stessa età e con la stessa percentuale di invalidità permanente ottengano lo stesso risarcimento, con la valorizzazione del vissuto individuale in vista della realizzazione di una eguaglianza che sia anche sostanziale; in concreto ciò significa che ove le proiezioni negative patite non divergano da quelle subite da altre vittime della stessa età e con lo stesso grado di invalidità permanente, la personalizzazione può essere concessa ove siano soddisfatte due condizioni: la posta risarcitoria pretesa non sia stata già riconosciuta; si tratti di una situazione particolare/eccezionale che la giustifichi”.
La prima condizione chiama in causa, almeno nel caso in questione, “la natura per così dire “onnicomprensiva” del danno biologico, sulla quale è bene dissipare ulteriori equivoci – prosegue la Suprema Corte arrivando al cuore della sentenza –: il danno biologico è non solo quello derivante dalla violazione dell’integrità psico-fisica in sé e per sé considerata, giacché deve anche tener conto dei riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività realizzatrici della persona umana; la compromissione dinamico-relazione, da ritenersi conseguenza normale dell’evento, costituisce danno biologico, non per assorbimento, ma per identificazione: la vittima non può cioè ottenere la personalizzazione in assenza di prova della ricorrenza di una situazione eccezionale, e a fortiori che gli venga liquidato un danno diversamente etichettato e nominato”.
La sofferenza interiore
Diversa invece è l’ipotesi in cui la vittima chieda la liquidazione di una conseguenza pregiudizievole differente dal danno biologico, “che si sostanzi in una proiezione negativa dell’illecito che non abbia costituito la base di riferimento per la liquidazione del danno biologico; in questo caso non basta lamentare una generica sofferenza fisica, la quale non può che accompagnarsi al danno biologico patito – chi subisce un danno biologico sottoponendosi, ad esempio, ad uno o più interventi chirurgici, a terapie, a percorsi di riabilitazione, perde o vede ridotta e modificata la possibilità di intrattenere rapporti sociali; altro e diverso aspetto del danno risulta la sofferenza interiore (il danno cosiddetto morale) che dipenda, ad esempio, da come il danneggiato percepisce la lesione nella relazione intimistica con sé stesso, dalle circostanze in cui si è manifestato l’illecito, dalla gravità della condotta dell’agente. Ricorrendo tali ipotesi, la posta risarcitoria richiesta si colloca invero al di fuori del danno biologico, dovendo ad esso sommarsi senza darsi peraltro luogo ad inammissibili duplicazioni”.
E’ ben presumibile che un trentenne rimasto zoppo abbia anche subito un danno morale
Venendo pertanto al caso specifico, avendo il danneggiato subìto un danno biologico di rilevante entità, quantificato nel 30 per cento di invalidità permanente, e avendo provocato nella vittima (all’epoca dei fatti trentenne) una permanente zoppia, “vi sono i presupposti per presumere che, oltre al danno biologico, egli abbia subito anche un danno morale – asserisce la Cassazione -: il ricorso alle presunzioni per accertare in concreto e non in astratto la ricorrenza del danno morale è direttamente proporzionale all’entità ed al tipo di lesioni, attesa la ragionevole e intuibile idoneità di fatti lesivi di significativa ed elevata gravità a provocare forme di sconvolgimento o di debordante devastazione della vita psicologica individuale (ragionevolmente tali da legittimare il riconoscimento dalla compresenza di un danno morale accanto a un danno biologico), rispetto alla corrispettiva idoneità delle conseguenze limitate a un danno biologico di modesta entità ad assorbire, secondo un criterio di normalità (e sempre salva la prova contraria), tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sul terreno del cosiddetto danno morale”.
La Suprema Corte evidenzia come non si possa non tenere conto nella circostanza che la Corte d’appello, “lungi dal negare il risarcimento del danno morale, lo ha in effetti ritenuto già compreso nell’ammontare del danno subito dall’odierno ricorrente liquidato in applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano”: il giudice si era avvalso, per liquidare il danno, delle tabelle di Milano del 2014, “le quali contemplano il punto di invalidità permanente come ri-comprensivo della liquidazione del danno biologico e di quello provocato dal dolore e dalla sofferenza soggettiva”. E’ stato pertanto seguito l’orientamento di legittimità secondo cui “il giudice che determini l’entità del danno servendosi delle tabelle milanesi (il cui valore del punto comprenda la liquidazione del danno morale) ha in realtà già tenuto – sia pur (come nella specie) implicitamente – conto, avuto riguardo agli importi in concreto liquidati, sia del danno biologico che del danno morale”.
La Corte d’Appello aveva applicato le tabelle milanesi inattuali
La Corte territoriale, tuttavia, continuano gli Ermellini, ha liquidato il danno utilizzando le tabelle del 2014, “laddove deve darsi seguito all’indirizzo consolidato secondo cui il giudice d’appello, nel determinare l’ammontare del danno alla persona in base al sistema “tabellare”, ha due obblighi, quello di utilizzare i parametri vigenti al momento della decisione, se questi sono mutati nelle more del giudizio, in quanto liquidare il danno sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c., e quello di liquidare l’obbligazione risarcitoria (in quanto obbligazione di valore) all’attualità, con applicazione pertanto le tabelle nel loro valore aggiornato”.
Ne discende che la mancata applicazione di tabelle aggiornate “viene a determinare, comunque, un errore da parte del giudice del merito, nella aestimatio del danno o nella relativa taxatio“. Nel caso di specie, nel fare riferimento alle tabelle del 2014 e non già alle tabelle milanesi aggiornate al momento della decisione (cioè quelle del 2018), la corte di merito non ha perciò “correttamente applicato i principi sopra richiamati”.
Ma la Suprema Corte si sofferma anche nella parte del motivo di ricorso in cui il ricorrente, oltre a lamentare il mancato accoglimento della richiesta di risarcimento del danno morale, censurava la sentenza per non aver ritenuto sussistenti altre componenti di danno produttive di gravi conseguenze in ambito affettivo e relazionale, pacificamente sussumibili “nella categoria del danno esistenziale che comunque non è assorbito nel danno morale né della sostanziale incapacità lavorativa conseguente ai gravi postumi riportati dal ricorrente”, avendo dovuto, in considerazione delle gravi disabilità di natura ortopedica, e dell’impossibilità di deambulare autonomamente, rinunciare a realizzare la propria persona in pienezza, con la sostanziale rinuncia alla possibilità di collocarsi validamente sul mercato del lavoro.
La Suprema Corte prende atto del fatto che il ricorrente “non ha espressamente censurato l’autonoma ratio decidendi con cui la Corte d’appello ha ritenuto che la cosiddetta personalizzazione del risarcimento non potesse essere accordata in quanto non ricorrevano le condizioni per addivenire ad una personalizzazione del danno non patrimoniale, in misura maggiore di quella riconosciuta dal Tribunale”. “E’ pur veto però – prosegue la Cassazione – che, denunciando la liquidazione forfetizzata determinata col punto tabellare, il ricorrente nella sostanza intende dolersi proprio e anche della mancata corresponsione dell’aumento percentuale a titolo di personalizzazione”.
I giudici territoriali non hanno considerato le circostanze che imponevano la personalizzazione
Ora, come detto, la personalizzazione del danno non patrimoniale spetta alla vittima “che alleghi la ricorrenza di circostanze specifiche ed eccezionali, le quali rendano il danno più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età: in tal caso è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione”.
E la Cassazione dà atto al ricorrente di aver infatti dedotto che la sua zoppia, le conseguenti difficoltà motorie, il grave danno estetico all’arto avevano determinato difficoltà nella vita di coppia e una maggiore difficoltà di intrattenere relazioni interpersonali che avevano avuto riflessi anche sulla sua possibilità di realizzarsi secondo le sue ambizioni nella vita lavorativa: “si tratta di circostanze che, attesa la gravità dei postumi accertati, la Corte d’appello dimostra di non avere preso in considerazione ai fini della personalizzazione del danno, limitandosi ad affermare in maniera del tutto assertiva che il danneggiato era incorso in un difetto di relativa allegazione” conclude la disamina del motivo di doglianza la Cassazione.
Accolta anche la doglianza sulla percentuale di corresponsabilità nel sinistro
La quale, peraltro, ha accolto anche quello relativo alla corresponsabilità del 25 per cento nel sinistro attribuito al danneggiato, avendo quantificato in questo modo il presunto apporto causale colposo del motociclista “con una frase di stile, priva di ogni anche solo ipotetico riferimento a ciò che sarebbe stato possibile fare e che non era stato fatto da parte del ricorrente, sicché l’applicazione dell’art. 2054 c.c. ha assunto l’impropria valenza di clausola limitativa della responsabilità piuttosto che di norma volta a sollecitare la cautela dei conducenti ed a risolvere i casi dubbi: in altri termini, la presunzione di eguale concorso di colpa stabilita dall’art. 2054, 2 comma, c.c. ha funzione sussidiaria, operando soltanto nel caso in cui le risultanze probatorie non consentano di accertare in modo concreto in quale misura la condotta dei due conducenti abbia cagionato l’evento dannoso e di attribuire le effettive responsabilità del sinistro”. In conclusione, difettando i presupposti di fatto per affermare il concorso causale presunto della vittima, e assorbiti gli altri motivi di doglianza, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Palermo per un nuovo esame della causa.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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