Non rendere edotto il paziente del percorso terapeutico a cui lo si sottopone, degli eventuali rischi di un intervento chirurgico o delle possibili alternative comporta la violazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione nelle cure, la cui lesione va risarcita, indipendentemente dal fatto che poi l’operato dei sanitari sia stato immune da censure.
Con la sentenza n. 26104/22 depositata il 5 settembre 2022 la Cassazione è tornata ad occuparsi di consenso informato e lo ha fatto in merito al tragico caso di un bimbo deceduto nel lontano 1998 al Policlinico di Bari a causa di una leucemia linfoblastica acuta.
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Medici condannati per falso ma assolti dal reato di omicidio colposo per la morte di un bimbo
I suoi genitori, dopo il decesso del figlioletto, avevano presentato diverse denunce per accertare la diligenza della condotta dei medici che lo avevano seguito durante il periodo di ricovero compreso tra il 25 agosto e il 27 agosto 1998, data della morte. La Procura di Bari aveva aperto un procedimento penale e, dopo l’espletamento delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio da parte del Pubblico Ministero con la formulazione dei capi d’imputazione, il Gup del Tribunale, con sentenza del 28 novembre 2003, all’esito del giudizio abbreviato, aveva ritenuto due dottori indagati colpevoli dei reati di cui agli art. 11, 81 e 476 del codice penale per avere, in concorso tra loro, falsificato la cartella clinica del piccolo paziente facendo risultare come avvenute delle analisi dei valori di coagulazione del sangue in realtà mai effettuate. Il giudice tuttavia aveva assolto gli imputati dal reato di omicidio colposo “perché il fatto non sussiste” e aveva rigettato l’istanza di risarcimento dai danni avanzata dalle parti civili costituitesi.
In appello, la Corte d’appello di Bari, poi, con sentenza del 25 novembre 2005, in parziale riforma della decisione di prime cure impugnata, aveva limitato la colpevolezza dei due sanitari per i reati contestati “alla falsificazione della data riportata sul report di stampa e sulla scheda cartonata relativa alle analisi effettuate sui prelievi del 20 agosto 1998”, assolvendoli, “in quanto il fatto non sussiste”, dalle residuali ipotesi di falsità accertate in primo grado e confermando nel resto la decisione di prime cure.
Il caso era già approdato una prima volta in Cassazione in quanto avevano proposto ricorso contro la sentenza di appello sia gli imputati, sia le parti civili, sia il Pubblico Ministero, che aveva rinnovato la richiesta di condanna per omicidio colposo.
La suprema Corte con sentenza n. 22192/08, del 3 giugno 2008, aveva rigettato i ricorsi dei medici e aveva invece accolto le doglianze dei genitori, annullando la sentenza impugnata agli effetti civili e rinviando la causa al giudice civile competente per valore in grado di Appello. Gli Ermellini, in particolare, avevano accertato un evidente difetto di motivazione nella sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bari e impugnata per vizi di preterizione, non essendosi questa pronunciata su “decisive deduzioni” svolte dalle parti civili nei motivi di appello, e con cui erano state avanzate specifiche e rigorose censure nei confronti della decisione di primo grado.
Riassunto quindi il giudizio ex art. 622 c.p.p. e 392 c.p.c. dai genitori del bambino, la Corte d’appello civile di Bari, con sentenza n. 2090/2018, pubblicata il 21 novembre 2018, aveva tuttavia rigettato la domanda di risarcimento del danno formulata in riassunzione, disponendo l’integrale compensazione delle spese di lite. In particolare il giudice del rinvio, pronunciandosi limitatamente al thema decidendum indicato dalla Corte di Cassazione e sulla base della consulenza tecnica collegiale espletata nel corso del giudizio di riassunzione, aveva accertato la conformità della terapia seguita dai sanitari al protocollo, non altrimenti sostituibile per la cura della leucemia linfoblastica acuta, escludendo che i farmaci somministrati al paziente e il negligente monitoraggio dell’assetto coaugulativo del sangue da parte due medici avessero influito sul decesso, da ricondursi, con elevato grado di probabilità, “alla comparsa improvvisa di sepsi dovuta ad infezione da Staphylococcus seguita da grave neutropenia”.
I giudici inoltre, ed è l’aspetto che qui più preme, avevano altresì escusò che potesse costituire oggetto di accertamento – in quanto non sarebbe mai stata messa in discussione dalla Cassazione – la violazione degli obblighi informativi da parte dei due medici, trattandosi secondo la Corte d’Appello di un “deficit conoscitivo in ogni caso irrilevante rispetto all’exitus del piccolo paziente”.
Mamma e papà ricorrono per Cassazione per violazione del consenso informato
Contro tale pronunciamento i genitori del bambino hanno nuovamente proposto ricorso per Cassazione lamentano innanzitutto la violazione e falsa applicazione delle norme legislative e dei regolamenti in materia di consenso informato e obblighi informativi. Secondo i ricorrenti, la Corte territoriale, nel ritenere che non costituisse oggetto di accertamento in sede di rinvio la violazione degli obblighi informativi da parte dei medici indagati, aveva interpretato in maniera errata il contenuto della sentenza di rinvio della Suprema Corte, nonché ritenuto sussistente un giudicato in realtà mai formatosi.
Per la mamma e il papà del bambino, infatti, il loro mancato coinvolgimento nelle scelte della sperimentazione terapeutica, che avrebbe consentito loro di optare tra farmaci alternativi, rappresentava uno dei presupposti per valutare la responsabilità della condotta omissiva dei sanitari, non potendosi affermare la formazione di un giudicato sul punto poiché la censura era stata più volte riproposta nel corso del giudizio. In particolare, sulla scorta di tale errore, i giudici di secondo grado avrebbero poi omesso di considerare che, essendosi fatto ricorso all’utilizzo di un protocollo sperimentale su un minore, la cogenza dell’obbligo informativo diveniva ancora più stringente, richiedendosi un consenso acquisito in forma scritta.
E lamentano la lesione del loro diritto all’autodeterminazione nelle cure
I genitori hanno altresì lamentato il fatto che la mancanza di informativa aveva aveva leso il loro diritto all’autodeterminazione nelle cure. E hanno censurato la sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione su domanda ritualmente proposta. La Corte avrebbe cioè rigettato erroneamente la loro domanda di risarcimento del danno subito a causa della falsificazione della documentazione sanitaria, ritenendolo un fatto lesivo di un generico interesse alla genuinità e veridicità dei documenti falsificasti e non produttivo di un danno non patrimoniale. Al contrario, secondo i ricorrenti, il delitto di falso aveva invece leso non solo l’interesse alla veridicità e genuinità dei mezzi probatori documentali ex arte. 24 e 111 della Costituzione, ma anche lo specifico (loro) interesse a poter conoscere il contesto storico in cui si era verificata la morte del figlio. Il giudice del rinvio, così facendo, avrebbe emesso una sentenza con una motivazione apparente ma in realtà inesistente, con grave violazione dei principi consolidati presso la giurisprudenza di legittimità.
Infine, i genitori del bimbo hanno anche asserito come la Corte d’appello di Bari avrebbe, a loro dire, considerato erroneamente come fungibili i farmaci somministrati al bambino, a fronte dell’evidente, maggiore tossicità dell’Asparagina in forma Medac rispetto all’Erwinase, omettendo anche di valutare le consulenze tecniche che avevano attestato la falsità della documentazione sanitaria nonché il mancato monitoraggio del paziente da parte dei sanitari, limitandosi a riproporre acriticamente quanto affermato dal collegio peritale nel giudizio di rinvio. I ricorrenti sono tornati a battersi per il riconoscimento del nesso eziologico tra condotta e tragico evento, sostenendo che, in applicazione dei principi sussistenti in tema di responsabilità civile da colpa medica, “è indubbio che, anche sulla scorta di un ragionamento presuntivo e controfattale, la violazione degli obblighi informativi, l’omessa esecuzione delle analisi dei valori della coagulazione e il conseguente utilizzo di farmaci di elevata tossicità abbiano cagionato la coagulazione intravasale diffusa e quindi il prematuro decesso del piccolo”.
La Corte di Cassazione ha rigettato quest’ultimo motivo, avallando la decisione della Corte d’Appello che aveva escluso che la condotta dei sanitari avesse contribuito alla serie causale culminata con il decesso, ma ha accolto in pieno gli altri.
Gli Ermellini hanno innanzitutto verificato se la Corte territoriale si fosse pronunciata nei limiti del thema decidendum delineato dalla Cassazione e ha evidenziato come nella sentenza di rinvio fosse specificato, testualmente, che “in ordine al protocollo Aicop, adottato da (omissis), il punto focale, rimarcato dalle parti civili e completamente sfuggito nell’iter logico seguito dai giudici d’appello, non concerne la natura sperimentale o terapeutica di tale protocollo, ma riguarda le modalità di esecuzione dello stesso protocollo con riferimento alle censure delle parti civili circa il negligente monitoraggio dell’assetto coagulativo del sangue, l‘utilizzo arbitrario di farmaci alternativi, e il doveroso coinvolgimento dei genitori nella scelta della sperimentazione terapeutica, per offrire loro la possibilità di optare tra farmaci alternativi“.
Mancava il consenso informato firmato da entrambi i genitori
E al riguardo la sentenza impugnata aveva riportato le conclusioni del collegio peritale il quale aveva stabilito chiaramente che, per citare testualmente la perizia, ”nella documentazione in atti non risulta allegato alcun consenso informato sottoscritto da entrambi i genitori del piccolo relativo alla terapia sperimentale messo in atto: risulta unicamente allegato un modulo di consenso informato sottoscritto dalla madre, relativo alla somministrazione di una variante dell’L-Asparaginasi, che per i contenuti e le modalità di presentazione appare carente ed inadeguato. La mancanza di una valida documentazione scritta attestante l’effettuazione di una idonea informazione ai genitori rappresenta un elemento che contraddice una doverosa responsabilità di comportamento dei sanitari dell’ospedale policlinico di Bari il riferimento ad un percorso farmacologico sperimentale che esplicitamente lo richiedeva“.
Dunque, osservano gli Ermellini, “erra la Corte d’appello dove ritiene, con una motivazione apparente, che tale inciso non ponga in discussione l’esistenza del consenso dei genitori alla cura praticata e ai farmaci specificamente utilizzati, ponendo alla sua attenzione, quale giudice del rinvio, unicamente il problema della possibilità di optare tra farmaci alternativi”, così come erra “concludendo che la sentenza della Cassazione avrebbe affidato al giudice del rinvio (solo) l’accertamento della corretta esecuzione del protocollo e del nesso causale tra le scelte terapeutiche effettuate e l’evento lesivo”. Dunque, con tale motivazione, secondo la Cassazione, il giudice del rinvio in realtà ha violato i parametri del thema decidendum indicato dalla Suprema corte.
I principi in merito della Cassazione
Dunque, nella sentenza impugnata “si è violato il diritto all’autodeterminazione dei genitori” vanno verso le conclusioni i giudici del Palazzaccio, che con l’occasione ricordano i principi affermati in merito dalla Cassazione: “la manifestazione del consenso del paziente (o genitori se il paziente è minorenne) alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli che, in quanto diritto autonomo e distinto da quello salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32 comma 2 della Costituzione; sebbene l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente – che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali sl perseguimento della cura o del risanamento del soggetto – non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tali da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l’inadempimento della obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori “concorrenti” della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all’omissione del medico un’astratta capacità plurioffcnsiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose; qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell’individuazione della causa “immediata” e “diretta” (ex art. 1223 e.e.) di tale danno– conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo dì intervento (o di cure), la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avrebbe negato il consenso, il danno biologico scaturente dall’inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza; le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell’id quod plerumque accidit: al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall’omessa informazione”.
Come ottenere il risarcimento
Pertanto, prosegue la Suprema Corte, i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato sono questi:“nell’ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto; nell’ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto costituzionalmente tutelato all’autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici”.
Ebbene, nel caso di specie secondo gli Ermellini i ricorrenti hanno “correttamente censurato” 1a sentenza impugnata “in quanto con i motivi di ricorso hanno riproposto che la mancanza di informativa abbia leso il loro diritto all’autodeterminazione nelle cure”. In accoglimento dei primi due motivi di ricorso sul consenso informato, quindi, la Suprema Corte ha nuovamente cassato la sentenza rinviando nuovamente la causa per la sua definizione alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.
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