La contrazione di un’infezione da agenti microbici o virali durante lo svolgimento della propria attività lavorativa a rischio può essere dimostrata in giudizio anche mediante presunzioni semplici, senza che si debba necessariamente individuare e provate uno specifico episodio o un contatto “infettante”.
E’ un’ordinanza estremamente significativa, tanto più in “epoca Covid”, quella, la n. 29435/22, depositata il 10 ottobre 2022 con la quale la Cassazione ha accolto il ricorso di un infermiere professionale che asseriva di avere contratto il virus HCV (l’epatite C) nella casa di riposo gestita da una cooperativa sociale privata in cui aveva operato nel 2007, ma al quale i giudici di merito – il Tribunale di Agrigento prima e la Corte d’Appello di Palermo poi, con sentenza del 2020 – avevano respinto la domanda di riconoscimento della copertura Inail e quindi dell’indennizzo in rendita o in capitale ai sensi del d.p.r. 1124/1965
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Respinta la richiesta di indennizzo Inail di un infermiere che aveva contratto l’epatite C
La Corte territoriale, prendendo le mosse dalla possibile origine pluri-fattoriale della malattia, aveva ritenuto che la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell’ambiente lavorativo gravasse sul lavoratore, aggiungendo che la valutazione da compiere non riguardava “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”.
Secondo i giudici mancava la prova di un evento specifico possibile origine del contagio
I giudici avevano sottolineato come il sanitario stesso non ricordasse di eventi specifici, durante il lavoro, quali punture accidentali, ritenendo non sufficiente il suo resoconto delle attività svolte, il fatto che avesse ordinariamente medicato e trattato per via parenterale pazienti anziani, epatopatici, spesso con piaghe da decubito. La valenza dimostrativa di tali circostanze, per la Corte d’Appello, oltre a non poter ricorrere a favore della parte che aveva reso tali dichiarazioni, sarebbe stata anche “neutralizzata” dall’accertamento svolto in altra causa in ordine ad una pregressa infezione da virus di epatite B, circostanza, quest’ultima, che avrebbe imposto, per citare la sentenza impugnata, “la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro”. E infine, i giudici palermitani avevano rilevato che non poteva essere utile alla prova richiesta nemmeno il verbale di visita della Commissione medica ospedaliera, formato in sede di procedimento per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992, “che esprime un giudizio (di derivazione professionale della malattia e di esposizione a rischio) di cui non rende noti gli elementi fattuali su cui è basato” aveva concluso la Corte territoriale.
L’infermiere ha quindi proposto ricorso per Cassazione, tornando a battere sul fatto che l’origine lavorativa della malattia virale era stata acclarata dalla Commissione per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992 e asserendo, pertanto, che, provenendo tale accertamento da un organo riferibile al Ministero della Salute, l’Inail non avrebbe potuto disconoscerne gli effetti. Il ricorrente ha inoltre obiettato che era errato richiedere, in presenza di una malattia tabellata, pur multifattoriale, la prova certa del fatto origine della malattia stessa come avvenuto in occasione di lavoro. Ancora, ha censurato la sentenza impugnata per non avere valorizzato, al fine almeno di dare corso a una consulenza tecnica medico legale sul nesso causale, quanto emergeva dalla perizia svolta in altra causa e dal verbale della Commissione, rimarcando l’errore commesso nell’avere ritenuto che la pregressa contrazione di epatite B potesse avere una qualche incidenza sulla decisione, visto che essa derivava da un diverso virus.
Per dimostrare il contagio basta provare la compatibilità della malattia con le mansioni svolte
Infine, ed è il motivo che più interessa, il sanitario ha lamentato la violazione ed errata applicazione dell’art. 4 L. 210/1992, e degli artt. 113, 115 e 116 Cpc, in relazione all’art. 360 c.p.c. nn. 3 e 5, sostenendo che, anche attraverso il richiamo alle tabelle di cui al d.p.r. 1124/1965, il giudizio di ragionevole probabilità poteva essere sviluppato anche in base alla compatibilità della malattia quale desunta dalla tipologia delle mansioni svolte, dalla durata e dal tempo della prestazione lavorativa e per l’assenza di altri fattori extra-professionali, potendo a tale scopo utilizzare congiuntamente anche dati epidemiologici. L’infermiere ammetteva di non aver effettivamente allegato uno specifico fatto verificatosi nello svolgimento della propria attività a cui imputare il contagio contratto, quale una puntura con un ago infetto o una medicazione praticata senza guanti, o altre microlesioni lavorative, ma rimarcava di non avere contratto il contagio prima dell’assunzione presso la Rsa in questione, producendo esami ematochimici al riguardo, e ribadiva con forza il fatto che, nello svolgimento delle sue mansioni di infermiere turnista, aveva ordinariamente medicato e trattato per via parenterale pazienti anziani, epatopatici, spesso con piaghe da decubito.
La Suprema Corte gli ha dato ragione. La Cassazione premette in primis che è errato l’assunto secondo cui “gli accertamenti della Commissione medica per la valutazione degli indennizzi ai sensi della L. 210/1992 potesse dispiegare un qualche effetto vincolante nel presente giudizio, visto che l’Inail è soggetto autonomo rispetto al Ministero della Salute, a cui non possono opporsi verifiche svolte da altri, da trattare come mezzi atipici di prova liberamente valutabili dal giudice”. E i giudici del Palazzaccio definiscono infondato anche il richiamo del ricorrente, come ragione di presunzione legale di origine lavorativa, all’inserimento dell’epatite C nella tabella di cui all’art. 139 d.p.r. 1124/1965, nel gruppo delle malattie per le quali vi è elevata probabilità di origine professionale: “questa corte – spiegano gli Ermellini -, dopo alcune oscillazioni, ha infatti chiarito, con orientamento ormai consolidato, che la predetta tabella non va confusa con quella di cui all’art. d.p.r. 1124/1965; mentre quest’ultima, formata indicando lavorazioni e malattie, ha l’effetto legale di invertire l’onere della prova del nesso causale, ponendolo, per i casi in essa indicati, a carico dell’ente previdenziale, la tabella di cui all’art. 139 ha valore epidemiologico e può valere soltanto, nella formazione del convincimento giudiziale, come elemento indiziario”.
Anche l’azione di fattori virali è causa “violenta” e il contagio si può provare per presunzioni
Tuttavia, la Suprema Corte riafferma come, “rispetto all’infezione virale, pur trattata dalla giurisprudenza di legittimità come infortunio, va invece ripreso, onde assicuravi continuità, l’indirizzo, risalente e mai contraddetto, secondo cui nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione”. Con la fondamentale aggiunta, prosegue la Cassazione, che “la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici”.
Nel caso di specie, invece, come si è visto la Corte d’Appello, “con una motivazione non sempre coerente e lineare” sentenzia la Suprema Corte e in cui si riteneva necessaria una “certa individuazione del fatto origine della malattia”, ha collocato “il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento – proseguono gli Ermellini – nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B, la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro. “Al di là del rilievo del ricorrente in ordine alla totale estraneità, risalendo a fattori virali indipendenti, della epatite B rispetto alla epatite C, per cui unicamente è causa – concludono dunque i giudici del Palazzaccio -, la predetta regola di giudizio e di prova adottata contrasta diametralmente con quanto ritenuto dal citato orientamento giurisprudenziale”.
La sentenza impugnata è stata pertanto cassata con rinvio alla medesima Corte d’Appello palermitana che dovrà svolgere “l’accertamento che pertiene ai casi come quello di specie, da operare ricostruendo in via probabilistica l’esistenza o meno di nesso causale tra l’evento morboso denunciato e l’attività professionale, secondo la tipologia di essa e le modalità concrete del suo svolgimento, ma senza necessità di riscontrare l’esistenza di uno specifico episodio o contatto infettante in occasione di lavoro”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Categoria:
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