Con la sentenza n. 4903/23 depositata il 6 febbraio 2023 su un caso si malpractice medica la Cassazione è tornata ad occuparsi della professione del radiologo a conferma di quanto sia di vitale importanza l’attività di questa figura sanitaria per la cura e la salvezza dei pazienti e di come quindi il loro lavoro debba essere svolto con scrupolo e nel pieno rispetto delle linee guida e delle buone pratiche di riferimento.
Nell’accogliere il ricorso dei familiari di un uomo il cui decesso con buone possibilità si sarebbe potuto evitare con una più attenta valutazione di una Tac, infatti, gli Ermellini hanno chiarito – ed è la ragione centrale per la quale la sentenza impugnata è stata cassata – che, essendo in discussione un esame di natura radiologica le linee guida sulla base delle quali andava valutata l’eventuale responsabilità del radiologo non potevano essere quelle prescritte per il medico del pronto soccorso che aveva in carico il paziente o del neurochirurgo che sarebbe dovuto intervenire sull’aneurisma nel caso fosse stato individuato prima, ma per l’appunto quelle vigenti in materia di radiologia diagnostica, ragionamento ovviamente estensibile a tutte le branche della medicina.
Indice
Radiologa condannata per omicidio colposo per colpa grave nella lettura di una Tac
La vicenda in questione, oltre che tragica, è anche processualmente molto complessa. Il Tribunale di Ivrea aveva condannato alla pena di otto mesi di reclusione una dottoressa ritenendola responsabile – per colpa grave nella lettura e nella refertazione della Tac, avendo escluso la presenza di lesioni encefalitiche e sanguinamento intracranico – del reato di omicidio colposo ai danni di un paziente ricoverato nell’ospedale ove essa svolgeva attività di radiologa: paziente che, sulla scorta dell’esito di quell’esame radiologico, era stato dimesso dal medico di pronto soccorso, salvo però morire dopo pochi giorni a causa di un edema cerebrale.
La condanna era stata confermata anche dalla Corte d’Appello di Torino nel 2019 ma l’imputata aveva proposto ricorso per Cassazione e la quarta sezione della Suprema Corte aveva cassato la sentenza, rilevando che il giudice di secondo grado avrebbe dovuto verificare, alla luce delle modifiche normative introdotte in tema di colpa medica dal decreto n. 189 dell’8 novembre 2009 e della successiva L. 24/2017 introduttiva dell’art. 590 sexies cod. pen., per citare la sentenza, “l’esistenza di linee guida regolatrici del caso di specie o comunque di buone pratiche clinico-assistenziali, stabilire il grado di colpa tenendo conto del discostamento da tali linee guida o, comunque, del grado di difficoltà dell’atto medico, stabilendo la qualità della colpa (imprudenza, negligenza o imperizia) ed il suo grado al fine di verificare se il caso rientri in una delle previsioni più favorevoli“, nonché integrare “dal punto di vista motivazionale anche il giudizio controfattuale“.
E sempre la Corte d’Appello torinese, in diversa composizione, quale giudice del rinvio, aveva riformato integralmente la sentenza di condanna, mandando assolta l’imputata “perché il fatto non costituisce reato”, ritenendo che i difformi giudizi degli specialisti intervenuti nel processo in relazione alla refertazione della Tac in questione, unitamente alla capacità di individuazione della malattia che affliggeva il paziente, avesse determinato un’oggettiva difficoltà della prestazione richiesta alla radiologa. Secondo i giudici territoriali, nei confronti di quest’ultima era ravvisabile al più un profilo di colpa lieve, sul piano penale irrilevante, dovendosi semmai ascrivere il mancato rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate al medico del Pronto Soccorso, nei confronti del quale non era stata tuttavia esercitata l’azione penale.
Questa volta sono state quindi le parti civili a (ri)proporre ricorso per Cassazione lamentando in primis la non corretta individuazione delle linee guida a cui avrebbe dovuto conformarsi l’operato della radiologa nell’esecuzione ed interpretazione della Tac eseguita sul paziente, costituite non già, per citare il ricorso, dal “percorso diagnostico terapeutico assistenziale per la gestione dell’emorragia subaracnoidea” riferite ai medici operanti nel Pronto Soccorso o comunque di guardia all’interno degli ospedali della regione, bensì dalle linee guida nazionali in merito alla “diagnostica per immagini”: queste ultime infatti prevedono che, allorquando si tratti, come nel caso di specie, di indagini complesse, debbano essere chiamati ad eseguirle i medici che dispongono dell’esperienza clinica necessaria a valutarne i risultati, imponendosi la verifica che la prestazione concernente la materia radiologica ed interventista sia stata correttamente eseguita ed abbia un livello accettabile ai fini dell’interpretazione diagnostica, essendo il radiologo responsabile della scelta delle immagini su cui basa il proprio referto.
Operato non valutato in base alle linee guida nazionali sulla diagnostica per immagini
I ricorrenti hanno pertanto evidenziato il discostamento da queste linee direttrici della condotta da parte dell’imputata, che aveva certificato l’esclusione di qualsiasi versamento e raccolta ematica nel cranio del paziente senza neppure far cenno all’immagine sfocata fuoriuscita dall’esame che aveva eseguito e senza avere la competenza necessaria ad effettuare le relative valutazioni essendo una radiologa generica e non una neuro-radiologa specializzata nella diagnostica del cranio, con conseguente ravvisabilità nel suo operato della colpa grave per negligenza.
I familiari della vittima hanno altresì contestato l’individuazione da parte della Corte di appello di Torino della responsabilità del medico del Pronto Soccorso per aver dimesso il paziente prescrivendogli una mera terapia farmacologica, rilevando come l’eventuale comportamento colposo di quest’ultimo fosse in realtà collegato all’ingannevole refertazione della Tac da parte dell’imputata e non avesse pertanto interrotto il nesso causale derivante dalla grave negligenza ed imperizia da parte di quest’ultima.
Inoltre, la parte civile ha lamentato la mancanza di ogni giudizio controfattuale, benché fosse stato espressamente prescritto dalla sentenza rescindente già pronunciata dalla Cassazione, sulla falsariga di quello che invece aveva debitamente compiuto il giudice di primo grado che aveva accertato come, se fosse stata posta in essere la condotta doverosa da parte della radiologa, l’evento letale non avrebbe avuto luogo con una percentuale che, seppure non assoluta, si aggirava comunque intorno al 47-68 per cento: accertamento, questo, che, non avendo costituito oggetto di impugnazione da parte dell’imputata, doveva ritenersi coperto dall’autorità della cosa giudicata.
Ancora, nel ricorso si è invocato anche il vizio motivazionale per non avere la sentenza impugnata preso in esame il contenuto della refertazione resa dall’imputata con il quale era stata categoricamente esclusa ogni ipotesi di emorragia subaracnoidea, omettendo di fare alcun riferimento alla sfocatura dell’immagine fuoriuscita dalla Tac e alla propria incompetenza specialistica: omissione che secondo i ricorrenti non solo aveva violato le direttive della pronuncia rescindente, ma anche avuto ineludibili ripercussioni sulla logicità del ragionamento seguito in merito all’individuazione e graduazione dell’elemento soggettivo, in tal modo erroneamente individuato nella colpa lieve.
Motivi di doglianza ritenuti fondati dalla Suprema Corte. “I giudici del rinvio – spiegano infatti gli Ermellini -, pur avendo tenuto conto, in conformità ai principi enucleati dalla precedente sentenza di annullamento di questa Corte, delle modifiche normative introdotte in tema di responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario che impongono di parametrare la condotta in contestazione alle raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali accreditate dalla comunità scientifica, purché adeguate alle specificità del caso concreto, non hanno tuttavia correttamente individuato i parametri regolatori del caso di specie”.
Trattandosi di esame di natura radiologica, infatti, prosegue la Cassazione, le linee guida applicabili “non possono essere quelle prescritte per il medico che ha in carico il paziente, che certamente è chiamato a svolgere ulteriori accertamenti ove si trovi di fronte ad un caso clinico di sospetta emorragia subaracnoidea, al successivo fine di valutare se intervenire o meno chirurgicamente, né quelle stabilite per il neurochirurgo incaricato del trattamento di un aneurisma già individuato, anch’esse riportate dai giudici torinesi, bensì quelle vigenti in materia di radiologia diagnostica”.
Dunque, benché fosse esente da vizi di violazione di legge l’individuazione della normativa applicabile, “correttamente individuata dalla Corte territoriale, stante la successione di leggi nel tempo, nella disciplina vigente al tempo del contestato delitto in quanto più favorevole al reo, e dunque nel cosiddetto decreto Balduzzi” che, a differenza del successiva legge Gelli-Bianco, esclude la responsabilità per comportamenti connotati da negligenza o imprudenza del sanitario comunque attenutosi alle linee-guida o alle buone pratiche accreditate, tuttavia, sottolineano i giudici del Palazzaccio, l’indagine primaria che era stata demandata al giudice del rinvio implicava “la corretta selezione proprio delle linee guida cui rapportare la condotta tenuta in concreto dall’imputata al fine di poi valutare la configurabilità dell’addebito di negligenza o imperizia nell’eseguita refertazione. E’ infatti nell’ambito delle sue specifiche competenze professionali, nella specie di radiologa, che l’indagine doveva essere condotta, competenze ben diverse da quelle del medico di Pronto Soccorso che, invece, la sentenza impugnata ritiene esclusivamente responsabile dell’evento letale ancorché non imputato, al fine di valutare se essa si fosse o meno discostata dai parametri relativi all’esigibilità della prestazione richiestale, comprensiva non solo dell’esecuzione della tomografia encefalica, ma altresì del relativo referto, a fronte dei sintomi presentati dal paziente, la corretta individuazione dei quali soltanto avrebbe consentito di apprezzare la configurabilità della colpa e a seguire individuarne il grado e, ove rientrante nell’ambito della rilevanza penale, il nesso di causalità con la morte dell’uomo”.
L’errata individuazione delle linee guida o comunque delle buone pratiche clinico-assistenziali ha dunque indotto la Corte territoriale a tralasciare del tutto, rimarca la Cassazione, “il profilo relativo all’omessa rappresentazione nel referto in contestazione di un’immagine non leggibile perché sfocata, così definita dalla stessa radiologa nel corso delle spontanee dichiarazioni rese innanzi al Tribunale di Ivrea o comunque non decifrabile da un medico privo, come l’imputata, delle specifiche competenze neuroradiologiche, secondo quanto emerso dagli accertamenti peritali”.
E’ infatti evidente, rileva la Suprema Corte, come un referto attestante l’esclusione di segni o presenze anomale nel cranio del paziente, senza alcun ulteriore elemento, “mai avrebbe potuto ingenerare nel sanitario del nosocomio che lo aveva preso in carico un dubbio in ordine alla possibile diagnosi di aneurisma, profilabile invece in caso di sospetta emorragia subaracnoidea, sospetto che in tanto può sorgere in quanto si ravvisino delle limitazioni alla leggibilità o all’interpretabilità degli esami, di natura più generale, già effettuati o in quanto vengano rappresentati da parte del radiologo incaricato oggettivi limiti di competenza”.
L’inesperienza della radiologa avrebbe dovuto spingerla ad approfondire i dubbi sull’esame
La “deriva”, come la definisce la Cassazione, imboccata dai giudici del rinvio si riflette, del resto, “anche sul piano strettamente motivazionale, del tutto inconferente risultando il rilievo che individua, a fronte della mancata rappresentazione della non nitidezza dell’immagine della Tac, nella mancanza di preparazione specifica della radiologa e nella conseguente ritenuta inesigibilità di una condotta alternativa l’impossibilità dell’insorgenza di un sospetto da parte di costei sulla presenza di segni di un sanguinamento in corso nella zona cranica ispezionata”: infatti, l’addebito che avrebbe dovuto costituire oggetto di accertamento sul piano della negligenza o dell’imperizia era, proseguono gli Ermellini, “se nell’impossibilità di lettura della Tac fosse licenziabile un referto attestante l’assenza di segni di una emorragia cerebrale, senza rappresentare la necessità di un approfondimento diagnostica.
Né può ritenersi, come adombra la difesa dell’imputata, che siffatto addebito esulasse dalla contestazione su cui si è incardinato il processo: dal momento che l’addebito mosso all’imputata era, secondo la testuale formulazione del capo di imputazione, quello della colposa omessa rappresentazione nel referto, “che l’accertamento diagnostico aveva evidenziato a carico del paziente l’esistenza di lesioni encefaliche, edema cerebrale e sanguinamento intracranico che dovevano consigliare quantomeno un approfondimento diagnostico mediante consulenza neuroradiologica“, non può non ritenersi ivi compresa la mancata evidenziazione di margini di incertezza, anche soltanto riferita alle proprie capacità di lettura correlate alla sua competenza, di un’immagine radiologica che la stessa imputata ha definito sfocata e sulla quale si era pertanto svolto il contraddittorio, avendo anche il perito affermato che “l’indagine mostrò l’evento emorragico in modo sfumato”, dato questo che la stessa sentenza impugnata qualifica come pacifico” conclude la Suprema Corte, che ha pertanto annullato la sentenza di assoluzione.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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