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Anche le “semplici” tute di lavoro, cioè gli indumenti forniti dall’azienda ai propri dipendenti, tanto più se essi svolgono attività pericolose, vanno considerati come Dpi, cioè i Dispositivi di Protezione Individuale, e pertanto il loro lavaggio è a carico del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Cassazione, sezione Lavoro, con l’interessante ordinanza n. 10128/23 depositata il 17 aprile 2023.

 

Un operatore ecologico chiede la condanna del datore di lavoro per il mancato lavaggio delle tute

La Suprema Corte si è occupata del caso di un operatore ecologico, addetto alla raccolta, al trasporto e allo smaltimento di rifiuti urbani, che aveva citato in causa il suo datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da inadempimento all’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale. In primo grado la domanda era stata accolta ma in secondo, con decisione del 2018, la Corte d’appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione proposta dall’azienda, aveva totalmente riformato la precedente sentenza, rigettando la richiesta del lavoratore.

ILa Corte territoriale aveva ritenuto che la classificazione dell’attività di raccolta di rifiuti come “industria insalubre“, ai sensi dell’art. 216, T.U. leggi sanitarie, rilevasse unicamente ai fini dell’ubicazione delle attività rispetto ai centri abitati e non riguardo alla qualificazione degli indumenti da lavoro come Dpi. In buona sostanza, pur ammettendo che la raccolta dei rifiuti esponesse l’addetto al contatto con germi e virus, in particolare attraverso le mani oppure per inalazione, i giudici avevano escluso che gli indumenti in questione, le tute, potessero svolgere una funzione protettiva, riconducendo la fattispecie esaminata all’ipotesi prevista dal comma 2, lett. a), dell’art. 40 del d.lgs. n. 626/1994: “non sono dispositivi di protezione individuale gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore“.

 

Quando gli indumenti di lavoro sono considerati Dpi

A questo punto l’operatore ecologico ha proposto ricorso per Cassazione lamentando in particolare il fatto che la Corte d’appello avesse escluso il rischio alla salute, certificato dalle relazioni dell’Asl, cui erano esposti i lavoratori per il contatto con i rifiuti solidi urbani e per il lavaggio nella propria abitazione degli indumenti usati durante l’attività lavorativa, nonostante il verbale ispettivo che era stato prodotto e che aveva evidenziato l’esistenza, nel settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti solidi urbani, di un rischio di esposizione degli addetti ad agenti microbiologici, con particolare riferimento al virus dell’epatite B (HBV), e con pericolo di contatto, specie per alcune mansioni come quelle dei porta-sacchi, riguardante varie parti del corpo tra cui mani, braccia, gambe. E, in ultima analisi, il ricorrente censurava il fatto che la sentenza impugnata avesse affermato che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non potessero essere classificati quali Dpi.

Censure che la Suprema Corte ha accolto in pieno, ricordando innanzitutto il principio più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, “in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c.: ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei Dpi”.

L’interpretazione data dalla Corte di merito al citato articolo 40, volta a far coincidere i Dpi con le attrezzature formalmente qualificate come tali in ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di realizzazione e commercializzazione, “non tiene adeguatamente conto del tenore letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale – proseguono gli Ermellini – L’espressione adoperata dall’art. 40, deve essere intesa nella più ampia latitudine proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute e dell’ampiezza della protezione garantita dall’ordinamento attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c.”.

La categoria dei Dpi, secondo i giudici del Palazzaccio, deve essere quindi definita in ragione della “concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione contemplati nel contratto collettivo”.

E scendendo nel caso specifico la Cassazione, citando casi pregressi, ricorda come, “con particolare riferimento agli operatori ecologici, addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato l’obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale”. I

 

Gli indumenti non sono mera divisa aziendale, lavaggio e manutenzione sono in capo al datore

In conclusione, la sentenza impugnata, pur avendo ritenuto esistente, in quanto notorio, il rischio di contatto con sostanze tossiche, nocive e agenti biologici (“germi e virus”) insito nell’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti, “ha escluso la qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I., considerando gli stessi come mera divisa aziendale oppure utili a preservare gli abiti civili, e ciò nonostante non risultassero adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché le tute rappresentavano per gli operatori ecologici l’unico schermo di protezione in concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la salute”.

I giudici territoriali sono pertanto incorsi nel denunciato vizio di violazione di leggeavendo erroneamente interpretato il D.lgs. n. 626 del 1994, art. 40, comma 1, e la nozione legale di D.P.I. Tale disposizione, per l’ampio tenore letterale della previsione e la precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale all’obbligo, posto dal D.lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 5conclude la Cassazione, che ha pertanto cassato la sentenza, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa composizione, per la sua conseguente conclusione.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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