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La Pubblica Amministrazione è chiamata a rispondere nel caso in cui un incidente stradale sia stato causato o concausato da problemi connessi alla sicurezza della strada gestita e dovuti a scarsa manutenzione, omesso controllo, violazioni normative e quant’altro: buche, sconnessioni, segnaletica insufficiente, ostacoli, eccetera.

Ma quando ricorre la responsabilità del custode e quali sono i suoi limiti? Utile, al riguardo, l’ordinanza n. 37515/2022 depositata il 22 dicembre 2022 dalla Cassazione, che si è occupata di un caso tanto particolare quanto tragico, quello di un automobilista uscito rovinosamente di strada per evitare un gatto che gli aveva attraversato la carreggiata e, il vero nodo della questione, finito contro un palo della luce.

 

Un automobilista per evitare un gatto finisce contro un palo della luce e perde la vita

Più precisamente, l’uomo, alle 11.40 del mattino del 17 dicembre 2006, percorrendo la Provinciale 79, nel Brindisino, nel tratto che dalla frazione di Tuturano conduceva alla città di Brindisi, alla guida di una Renault Clio, giunto all’intersezione con una strada che portava nella contrada Masseria era stato costretto a sterzare repentinamente a sinistra per non investire un gatto e, a causa dell’asfalto reso viscido dalla pioggia, dopo una rototraslazione dell’auto verso sinistra, spostandosi per circa 40 metri, aveva impattato contro un palo dell’illuminazione pubblica, installato dall’Enel, e posizionato sul lato sinistro rispetto al senso di marcia percorso. A seguito dell’impatto il conducente del veicolo aveva riportato gravi lesioni che ne avevano causato la morte avvenuta durante il trasporto all’ospedale.

I suoi congiunti avevano citato in giudizio la Provincia di Brindisi, Ente proprietario della strada, chiedendo che ne fosse accertata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., nella causazione del sinistro, non per l’attraversamento della strada operato dal gatto che, com’è noto, non rientra tra le specie selvatiche quali i cinghiali di cui deve rispondere l’ente pubblico, più precisamente (peraltro) la Regione, ma per non aver ottemperato agli obblighi di vigilanza e custodia del bene custodito relativamente al palo dell’Enel. I familiari della vittima contestavano il fatto che questo fosse stato collocato sulla banchina in calcestruzzo ad una distanza inferiore a quella prevista dal D.m. 21 marzo 1988 e che questa violazione avrebbe rivestito un ruolo decisivo sull’esito tragico dell’incidente.

E il tribunale di Brindisi, disposta la consulenza tecnico-dinamica, aveva dato loro ragione, condannando l’Ente provinciale al risarcirli dei danni, ma in esito al gravame proposto dalla Provincia di Brindisi, la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 2019, aveva invece rigettato la domanda di risarcimento dei danni, riformando totalmente la decisone di prime cure.

Rilevata la natura “oggettiva” della responsabilità da cose in custodia, la Corte leccese aveva acclarato che l’automobilista aveva effettivamente perso il controllo del mezzo a causa dell’improvviso attraversamento della carreggiata da parte di un gatto, evidenziando poi che dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio si evinceva che il palo contro il quale era andato ad impattare il veicolo risultava allocato ad una distanza di circa 60 cm dalla striscia bianca che delimitava la carreggiata e che l’eventuale suo diverso posizionamento, con ogni probabilità, non avrebbe comunque evitato l’evento dannoso.

 

Posizione del palo della luce ininfluente, determinanti invece le violazioni del conducente

Inoltre sempre dalla Ctu era emerso che la segnaletica verticale prevedeva un cartello di pericolo, indicante la presenza di un incrocio, mentre quella orizzontale individuava i margini laterali della carreggiata; che il veicolo aveva invaso, con una rototraslazione, dapprima la sede stradale riservata alla circolazione in senso inverso, impattando contro il palo posto a una distanza di circa 60 centimetri dalla striscia bianca di delimitazione della carreggiata, invadendo altresì la banchina di sinistra; ancora, che gli pneumatici erano usurati nella misura del 70-80 per cento e, dunque, inidonei ad assicurare la massima efficienza del sistema frenante; infine, erano state rilevate dalla consulenza tecnica plurime violazioni al codice della strada da parte della vittima, quali l’invasione della corsia opposta, come detto, e la velocità non adeguata in relazione alle condizioni dell’auto ed alla presenza di una intersezione.

I giudici territoriali avevano pertanto concluso che il comportamento del danneggiato aveva contribuito, al pari del comportamento del terzo, cioè il gatto, alla causazione dell’evento e che difettava la prova che questo fosse stato prodotto dal posizionamento del palo “ad una distanza di soli pochi centimetri in meno rispetto alle previsioni”.

A questo punto i familiari della vittima hanno proposto ricorso per Cassazione lamentando il fatto che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare fatti storici decisivi, che pure erano emersi dagli atti processuali, e che, se adeguatamente valutati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia. In particolare, i ricorrenti sono tornati a censurare il fatto che la Provincia di Brindisi, pur essendone obbligata, aveva omesso di posizionare il palo della pubblica illuminazione contro cui aveva impattato il veicolo del loro caro a una distanza di mezzo metro dal bordo esterno della banchina, risultando il palo posizionato a mezzo metro ma dal bordo interno della stessa banchina e a 60 centimetri dalla striscia bianca che delimitava la carreggiata: secondo gli eredi della vittima, l’assenza del palo nella posizione in cui si trovava al momento dell’evento avrebbe, in primo luogo, consentito all’auto di cadere nella cunetta in cemento armato e, in secondo luogo, l’impatto tra il mezzo e il palo si sarebbe verificato in un punto più prossimo all’asse anteriore del veicolo e la vettura non si sarebbe accartocciata sul palo stesso, come era invece avvenuto.

I ricorrenti hanno poi sostenuto che i giudici di appello avevano disapplicato le norme C.E.I. e il d.m. n. 449 del 1988, che regolamentano l’ubicazione dei pali dell’illuminazione pubblica, non avendo considerato che il rispetto, da parte della Provincia di Brindisi, delle prescrizioni normativamente imposte per le distanze minime di sicurezza da rispettare nell’ubicazione dei pali elettrici lungo le strade extraurbane avrebbe evitato la situazione di pericolo che aveva causato le lesioni fatali al loro congiunto. Secondo la loro tesi, per la configurabilità della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. era necessaria unicamente l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa ed il danno e il comportamento colposo del danneggiato non era idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno, costituita dalla cosa in custodia, ed il danno, potendo eventualmente integrare un concorso colposo ai sensi dell’art. 1227 cod. civ. 3.

La Suprema Corte, nel trattare il ricorso, ha ripercorso tutte le motivazioni della sentenza impugnata nella quale i giudici territoriali avevano rilevato nelle premesse, come peraltro già accennato, che la responsabilità da cose in custodia ha natura “pressoché oggettiva”, che per la sua configurabilità “è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o no di un obbligo di vigilanza”, e che tale tipo di responsabilità è escluso “solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità e della inevitabilità”. E, quindi, avevano per l’appunto accertato, con una valutazione esclusivamente in fatto, in esito all’esame della prova per testi, degli elementi probatori emergenti dal verbale della Polizia Municipale sopraggiunta sul luogo del sinistro nell’immediatezza dell’incidente e delle risultanze della consulenza tecnica disposta nel corso del giudizio, che il nesso causale era stato interrotto dal caso fortuito, “rappresentato dal fatto del terzo e dalla colpa del danneggiato“.

Infatti, come detto, dalla ricostruzione operata dalla Corte territoriale era emerso che l’automobilista aveva perso il controllo del veicolo che conduceva “a causa dell’improvviso attraversamento della carreggiata da parte di un gatto” e che, per effetto della velocità non adeguata alle condizioni della strada che stava percorrendo (fondo stradale reso viscido dalla pioggia e presenza di una intersezione) e degli pneumatici usurati, aveva invaso la corsia opposta oltrepassando le linee longitudinali continue poste tra le carreggiate ed andando ad impattare contro il palo dell’illuminazione pubblica posto ad una distanza di circa 60 cm. dalla striscia bianca di delimitazione della carreggiata, così invadendo anche la banchina di sinistra.

La Corte territoriale ha, quindi, ritenuto che l‘evento lesivo sia stato cagionato esclusivamente dal comportamento del danneggiato e dal fatto del terzo (ossia l’attraversamento del gatto), escludendo al contempo che l’allocazione del palo ad una distanza di pochi centimetri da quella in cui si trovava al momento del sinistro sarebbe stata idonea ad evitare l’impatto” riassume la Suprema Corte che, sulla scontra di questo percorso argomentativo, conclude escludendo la circostanza che la Corte di merito sia incorsa in un errore di diritto “per avere interpretato il profilo della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. secondo criteri ad essa estranei, risultando, al contrario, che essa non si sia discostata dai principi in tema di responsabilità da cose in custodia affermati da questa Corte e, di recente, precisati dalle Sezioni Unite”.

 

I principi in tema di responsabilità da cose in custodia

Al riguardo, gli Ermellini citano quest’ultima sentenza, la n. 20943 del 2022, nella quale, spiegano, “sono stati richiamati e ribaditi i principi già in precedenza enunciati con le sentenze rese in data 10 febbraio 2018, n. 2480 e n. 2481”. Nel dettaglio, l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima”; a integrare la responsabilità è necessario e sufficiente che il danno sia stato cagionato dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa, mentre non occorre accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio del suo potere sul bene, giacché il profilo della condotta del custode è del tutto estraneo al paradigma della responsabilità ex art. 2051 cod. civ.”.

Ancora, il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e quello dello stesso danneggiato; la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso; il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro, le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere.

Infine, il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado dì incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227, primo comma, cod. civ. (Cass., sez. 6-3, 30/09/2014, n. 20619), e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., cosicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.

Si tratta, dunque, di un’ipotesi di responsabilità oggettiva con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo ad elidere il nesso causale altrimenti esistente fra la cosa e il danno.

 

Il caso fortuito e la condotta della vittima

Con specifico riferimento, poi, ai criteri di accertamento del nesso causale, “si è precisato – chiarisce la Suprema Corte – che il caso fortuito può essere integrato dalla stessa condotta del danneggiato quando esso si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera occasione della vicenda produttiva del danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell’evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente. Con la conseguenza che quanto più la situazione di possibile pericolo sia suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico fra fatto ed evento dannoso”.

Ne consegue pertanto che, “quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione squisitamente di merito, che va compiuta sul piano del nesso eziologico, ma che comunque sottende sempre un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela“. In altri termini, qualora la condotta del danneggiato assurga, per l’intensità del rapporto con la produzione dell’evento, al rango di causa esclusiva dell’evento e del quale la cosa abbia costituito la mera occasione”, viene meno appunto il nesso causale tra la cosa custodita e quest’ultimo e “la fattispecie non può più essere sussunta entro il paradigma dell’art. 2051 cod. civ., anche quando la condotta possa essere stata prevista o sia stata comunque prevedibile, ma esclusa come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale”.

 

Ente assolto, gatto e incauta condotta della vittima hanno assunto un ruolo causale esclusivo

Ebbene, nel coso specifico la Corte d’appello di Lecce, secondo i giudici del Palazzaccio, avrebbe fatto “buon governo” di tali criteri, “avendo negato la responsabilità del custode dopo avere escluso la sussistenza di un nesso di causa tra la cosa in custodia ed il danno e dopo avere individuato nel fatto del terzo e nell’incauta condotta del danneggiato le cause da sole idonee a produrre l’evento e ad integrare gli estremi del caso fortuito”.

Questa conclusione, “fondandosi su una valutazione fattuale delle risultanze istruttorie che riconosce alla situazione dei luoghi e alla presenza del palo posizionato ad una distanza che divergeva di pochi centimetri da quella imposta dalla legge un ruolo di mera occasione di tale sinistro”, non è censurabile in sede di legittimità conclude la Suprema Corte, ribadendo però che “l’apprezzamento svolto dai giudici di merito è scevro da quei vizi motivazionali ammessi dopo la novella del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., stante il generale principio di insindacabilità della ricostruzione dei fatti e del nesso eziologico, affermato da consolidata giurisprudenza, ed è esente dai vizi di violazione di legge denunciati, poiché l’applicazione dei superiori principi porta a ritenere che il fatto del terzo e la condotta del danneggiato abbiano in concreto assunto un ruolo causale esclusivo nella produzione dell’evento dannoso, per avere il giudice dì merito ritenuto, secondo un giudizio probabilistico, che, ove il palo fosse stato allocato ad una distanza diversa dal punto in cui era stato posizionato, non sarebbe stata evitata la collisione dell’autoveicolo con il palo ed il conseguente decesso della vittima”.

Il ricorso è stato pertanto rigettato.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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