Il lavoratore vittima di un infortunio, nell’agire contro il datore di lavoro per il risarcimento integrale (il cosiddetto danno differenziale) patito, deve provare il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno ma non anche le colpe e le violazioni commesse dal suo titolare. A ribadire con forza questo principio a tutela dei danneggiati la Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 9120/24 depositata il 5 aprile 2024.
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Camionista cade e s’infortuna rifornendo il mezzo per l’intralcio del tubo che erogava il gasolio
L’addetto in questione, con mansioni di autista, aveva citato in causa il proprio datore di lavoro per ottenere, appunto, il risarcimento del danno differenziale conseguente a un infortunio occorsogli nell’aprile del 2012, allorché era caduto mentre provvedeva ad effettuare il rifornimento di gasolio per il camion che aveva in dotazione: caduta che, a quanto denunciato dall’autotrasportatore, era stata causata dall’intralcio costituito dal tubo di erogazione dell’impianto di rifornimento, situato presso la sede aziendale, mentre egli si trovava posizionato su una piattabanda collocata ad un livello inferiore rispetto al distributore.
In primo grado la domanda risarcitoria era stata accolta, ma in secondo la Corte d’appello di Napoli, accogliendo il gravame interposto dall’impresa, aveva totalmente riformato la sentenza rigettando la domanda. In estrema sintesi, i giudici di appello avevano ritenuto che le prove testimoniali, assunte in primo grado e poste a base della decisione di accoglimento del ricorso da parte del tribunale, non avrebbero in realtà consentito di ricostruire con certezza la dinamica dell’incidente poiché i testimoni non avevano assistito in maniera diretta al suo verificarsi ed avevano riferito unicamente di una caduta.
Per la Corte d’appello l’infortunato non aveva dimostrato le norme di prevenzione violate
La Corte territoriale aveva inoltre rilevato come il lavoratore fosse inciampato nel tubo di erogazione del carburante mentre riforniva l’automezzo, manovra che, come autotrasportatore, eseguiva ormai da molti anni e infine, soprattutto, avevano obiettato che né dalle deposizioni testimoniali né dal ricorso introduttivo del giudizio da parte dell’infortunato emergevano le norme di prevenzione violate dal datore di lavoro, concludendo quindi che l’incidente era sarebbe stato a attribuire (solo) a negligenza e imprudenza dello stesso lavoratore.
Il lavoratore ricorre per Cassazione sostenendo di aver provato le situazioni di pericolo
Il quale a questo punto ha proposto ricorso per Cassazione ribadendo che l’infortunio si era verificato nell’espletamento dell’attività lavorativa, presso la sede operativa della società datoriale, a Napoli, e che, nell’effettuare il rifornimento di gasolio al camion in dotazione presso il distributore ivi collocato, era caduto a terra a causa dell’intralcio costituito dal tubo di erogazione sprovvisto di sistema di sicurezza.
Il danneggiato ha altresì aggiunto che tale dinamica era riportata nella denuncia di infortunio trasmessa dalla società all’Inail, che aveva riconosciuto e indennizzato l’infortunio, affermando di avere, fin dal ricorso introduttivo del giudizio, argomentato sulla nocività del luogo di lavoro e, più precisamente, sul fatto che, per citarlo, “il tubo andava a cadere su una piattabanda posizionata in maniera irregolare al di sotto del distributore e per l’intera estensione dello stesso, creando una sporgenza da uno dei due lati”. E aveva anche prodotto prove fotografiche per dimostrare come la collocazione della piattabanda determinasse un dislivello tra la superficie di calpestio e il distributore, dato che fuoriusciva da uno dei due lati dell’erogatore, creando una sporgenza. Pertanto, secondo il ricorrente, l’incidente si sarebbe potuto evitare modificando lo stato dei luoghi o apponendo delle apposite barriere protettive eliminando il dislivello, nonché adottando un sistema di riavvolgimento automatico della pompa, e dunque l’incidente era da attribuire alla esclusiva responsabilità del datore di lavoro, per non avere apprestato le opportune misure di sicurezza nell’area di sosta dove era ubicato il serbatoio del gasolio per consentire il rifornimento dei mezzi.
La Suprema Corte accoglie le domande e fa chiarezza
La Cassazione ha accolto in pieno la doglianza. “L’art. 2087 del Codice Civile, norma di chiusura del sistema di prevenzione e di sicurezza nel rapporto di lavoro, impone all’imprenditore di adottare tutte le misure e le cautele atte a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratori, tenuto conto delle caratteristiche concrete dei luoghi di lavoro e, in generale, della realtà aziendale. L’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087 c.c. si inserisce nella struttura del rapporto obbligatorio tra lavoratore e datore di lavoro ed è fonte di responsabilità contrattuale” premettono gli Ermellini, aggiungendo quindi che la formulazione della norma in esame, attraverso l’espresso riferimento alle “misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, correla l’obbligo di protezione alle concrete e indefinite situazioni di rischio a cui il lavoratore può trovarsi esposto “e in tal modo impone al datore di lavoro l’adozione non solo delle misure cosiddette nominate ma anche di tutte quelle che, seppure non tipizzate, siano richieste dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza riferite ad un determinato momento storico”.
Il lavoratore deve provare l’inadempimento e il nesso di causa con il danno subito
Le caratteristiche dell’obbligo di sicurezza, così delineate, “si riflettono sul contenuto degli oneri di allegazione e prova che gravano sul creditore dell’obbligo medesimo, il lavoratore” proseguono i giudici del Palazzaccio, entrando nel vivo della questione. “Questi, ove agisca verso il datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218 c.c”.
A questo punto la Suprema Corte ritiene necessarie alcune precisazioni circa l’allegazione del “fatto costituente inadempimento”, partendo dalla premessa che “l’inadempimento esprime la qualificazione giuridica di una determinata condotta, commissiva o omissiva, adottata in violazione di un obbligo preesistente, e ciò comporta che la relativa allegazione debba modularsi in relazione alle caratteristiche ed al contenuto di tale obbligo”.
Ma non anche le violazioni del titolare che ha l’onere di dimostrare di aver adottato ogni misura
Dunque, “posto che l’art. 2087 c.c. pone un generale obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo, l’onere di allegazione del lavoratore non può estendersi fino a comprendere anche l’individuazione delle specifiche “norme di cautela violate”, come preteso dalla Corte di merito – sottolinea con forza la Cassazione -, specie ove non si tratti di misure tipiche o nominate ma di casi in cui molteplici e differenti possono essere le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza. È, invece, necessario, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nell’organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, e il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l’onere di provare l’inesistenza della condizione di pericolo o di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti”. In altri termini, l’identificazione dell’inadempimento, quale componente dell’onere di allegazione del lavoratore, “deve essere modulata in relazione alle concrete circostanze e alla complessità o peculiarità della situazione che ha determinato l’esposizione al pericolo”.
Passando infine al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come il lavoratore, nel ricorso introduttivo della lite, avesse ben descritto lo stato dei luoghi aziendali, più precisamente del distributore ove egli doveva fare rifornimento per il veicolo in dotazione, sottolineando l’esistenza di un dislivello tra il piano di calpestio e il distributore stesso e l’assenza di barriere protettive e di sistemi di riavvolgimento automatico della pompa, “condizioni tali da rendere concreto il pericolo di caduta nell’esecuzione delle operazioni di rifornimento” rimarcano i giudici del Palazzaccio, ricordando anche che “va considerato che, in materia di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute”.
Né rileva il concorso di colpa del lavoratore se le norme di sicurezza non sono state rispettate
Ne consegue che, “qualora non ricorrano simili caratteristiche nella condotta del lavoratore, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando in alcun grado l’eventuale concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza”.
Ricorso dell’autotrasportatore accolto e sentenza cassata
In conclusione, per la Cassazione la Corte d’appello partenopea “non ha fatto corretta applicazione dei principi richiamati, sia quanto al contenuto dell’onere di allegazione e prova del lavoratore, avendo ritenuto necessaria l’individuazione delle norme di prevenzione violate, e sia nella valutazione dell’eventuale negligenza di quest’ultimo, avendo considerato la stessa idonea da sola ad elidere la responsabilità datoriale”.
Il ricorso del lavoratore è stato pertanto accolto, la sentenza impugnata è stata cassata, con rinvio alla stessa Corte d’appelli di Napoli, in diversa composizione, per un riesame della vicenda sulla base dei principi di diritto riaffermati.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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