Con l’interessante sentenza n. 13806, pubblicata il 19 maggio 2023, la Cassazione (Sezione Lavoro Civile) ha provato a fare luce sul delicato tema della malattia professionale. Più nello specifico, si è parlato di risarcimento e prescrizione della stessa, andando a definire il momento esatto in cui quest’ultima inizia effettivamente e, di conseguenza, fino a quando è possibile richiedere un indennizzo quando la responsabilità è del datore di lavoro.
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Malattia professionale: facciamo chiarezza
Innanzitutto vanno delineati i caratteri della malattia professionale, che non va confusa con l’infortunio sul lavoro. La prima, in estrema sintesi, è una patologia contratta durante o a causa dell’attività lavorativa che si svolge, che può essere dettata da una molteplicità di fattori di rischio e che riporta alla singola persona danni che vanno dall’incapacità lavorativa sino anche, in alcuni casi, alla morte.
Ci deve poi essere, ovviamente, un legame diretto tra l’infermità e la mansione svolta: la prima, cioè, deve dipendere dalla seconda in un rapporto di causa-effetto dimostrabile.
Risarcimento e prescrizione
La possibilità per il lavoratore, o per i suoi familiari, di ottenere un risarcimento dalla malattia professionale deriva principalmente dalla “causa lenta“, ossia da una continuativa e graduale azione lesiva sulla persona, che è la reale differenza con l’infortunio sul lavoro, il quale si manifesta invece per un qualcosa di inaspettato ed improvviso.
Per quanto concerne la prescrizione della malattia professionale, viene in aiuto l’art. 112 del D.P.R. n. 1124 del 1965, secondo cui “l’azione per conseguire le prestazioni di cui al presente titolo si prescrive nel termine di tre anni dal giorno dell’infortunio o da quello della manifestazione della malattia professionale“.
Ciò su cui si “gioca”, quindi, è la partenza della prescrizione: secondo la Cassazione, come si vedrà successivamente, il momento dal quale si inizia a calcolare corrisponde al giorno in cui la malattia si manifesta, ossia quando le vittime hanno reale consapevolezza del danno, oltre che della sua interconnessione con l’attività lavorativa.
Il caso
Nel caso trattato nell’ordinanza, la Corte d’Appello di Lecce, aveva a suo tempo respinto l’appello proposto dagli eredi di una vittima nei confronti del datore di lavoro, – confermando la decisione di primo grado – che aveva rigettato, per intervenuta prescrizione, la domanda di risarcimento del danno biologico conseguente alla malattia professionale contratta dal de cuius nello svolgimento del rapporto di lavoro alle dipendenze di tale società.
La Corte, infatti, aveva identificato il dies a quo di decorrenza della prescrizione il giorno in cui è stato pubblicato – si legge nell’ordinanza – “una relazione tecnica la quale attestava la presenza, all’interno del luogo di lavoro, di sostanze cancerogene, oltre che l’obsolescenza degli impianti, la mancanza di dispositivi di aspirazione dei fumi all’origine, la elevata quantità di fibre di amianto e concentrazioni di polveri sottili, relazione di cui erano una conoscenza anche gli appellanti per loro stessa ammissione“.
La decorrenza della prescrizione
La Suprema Corte, però, ha impugnato quanto affermato dai giudici di secondo grado, affermando che – partendo dalla sentenza n. 10441 del 2007 – si era già enunciato quel principio secondo cui “la prescrizione decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza della conoscibilità da parte dell’assicurato dello stato morboso, della sua eziologia professionale e del raggiungimento della misura minima indennizzabile“, per citare l’atto.
La manifestazione della malattia
Gli Ermellini, poi, hanno analizzato la definizione precisa di manifestazione all’interno dell’intricata tematatica, che si rispecchia nel momento in cui la malattia sia “oggettivamente percepibile e riconoscibile” per riprendere i termini della sentenza 576 del 2008, utilizzata come riferimento in materia dai giudici.
L’ordinanza prosegue poi spiegando che “non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di stare male, bensì occorre che quest’ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive della sua salute“.
Il singolo individuo, infatti, – si legge ancora – “si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi e la preoccupazione di evitare che l’inattività della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell’interruzione della prescrizione sono alla base della elaborazione giurisprudenziale che è giunta a collocare il dies a quo nel momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo“.
La decisione della Cassazione
Individuando come dies a quo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta dagli eredi del lavoratore deceduto l’entrata in vigore della L. n. 277 del 1991 (che predisponeva cautele per i lavoratori esposti all’amianto), quindi, i giudici di secondo grado hanno omesso di applicare i principi di diritto secondo cui il momento d’inizio della prescrizione coincide con quello in cui il lavoratore percepisce effettivamente l’infermità.
Infatti, espone precisamente il Palazzaccio, “in materia di malattia professionale, la prescrizione decorre non dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno (o è posta la diagnosi di malattia comune), ma dal momento della conoscenza, da parte del lavoratore o dei suoi eredi, secondo il metro dell’ordinaria diligenza, dell’origine professionale della patologia desumibile da elementi oggettivi ed esterni al soggetto leso, come la domanda amministrativa o la diagnosi medica, tenuto conto delle conoscenze scientifiche dell’epoca accessibili attraverso la consultazione del personale medico”.
La Suprema Corte, così, accoglie il ricorso proposto dai congiunti della vittima e “cassa” la sentenza impugnata, rinviando il tutto alla Corte d’appello, che dovrà tener conto di quanto detto per la sua decisione sul caso.
Scritto da:
Dott. Andrea Biasiolo
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Categoria:
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