Con l’ordinanza n. 20310/22 depositata il 23 giugno 2022 la Cassazione è tornata ad occuparsi di una questione delicata che purtroppo interessa migliaia di danneggiati e su cui i tribunali di merito sembrano non avere ancora le idee chiare, ossia l’onere della prova nelle cause di risarcimento per i danni causati da emotrasfusioni con sangue infetto, una delle pagine nere della sanità italiana.
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La causa per danni di una donna che ha preso l’epatite per una trasfusione da sangue infetto
Una donna aveva citato in giudizio innanzi al Tribunale di Bologna il Ministero della Salute chiedendo il risarcimento del danno conseguente ad emotrasfusione di sangue infetto che le aveva provocato l’epatite cronica HCV. Il Ministero, tra le altre cose, aveva eccepito il difetto di legittimazione passiva, indicando quale soggetto legittimato la struttura sanitaria presso cui la trasfusione era avvenuta, gli Istituti Ortopedici Rizzoli, che quindi la paziente, previa autorizzazione del giudice, aveva chiamato in causa.
I giudici tuttavia avevano respinto la domanda. La danneggiata aveva quindi proposto appello e con una prima sentenza, del febbraio 2018, la Corte d’appello di Bologna aveva dichiarato la responsabilità del Ministero e rigettato l’appello nei confronti della struttura sanitaria, condannando la donna al rimborso delle spese processuali nei confronti di quest’ultima.
Quindi, aveva disposto con separata ordinanza per l’ulteriore istruzione della causa. E con sentenza dell’11 giugno 2019 la Corte d’appello di Bologna aveva rigettato anche l’appello nei confronti del Ministero, osservando che, avendo la paziente percepito l’indennizzo previsto dalla legge n. 210 del 1992, incombeva a lei, quale soggetto onerato della prova del danno, di provare l’ammontare dell’indennizzo ricevuto e che ella invece non aveva depositato al riguardo alcuna documentazione.
L’onere della prova
La danneggiata a questo punto è andata fino in fondo proponendo ricorso anche per Cassazione contro entrambe le sentenze della Corte d’appello. In particolare, la donna ha sostenuto che le sarebbe stato posto in carico erroneamente l’onere di provare l’effettiva percezione e l’ammontare dell’indennizzo: illegittima sarebbe stata anche l’ordinanza istruttoria con cui era stato chiesto all’appellante di documentare l’importo ricevuto a titolo di indennizzo.
Con un ulteriore motivo, poi, ha lamentato il fatto che il giudice d’appello aveva omesso di pronunciare, sempre nella sentenza del 2018, sull’istanza proposta in via subordinata con cui era stato chiesto, nel caso di ritenuto difetto di legittimazione passiva della struttura sanitaria, che le spese liquidate in favore di quest’ultima fossero poste a carico del Ministero, essendo stata proposta la chiamata in causa in ragione del discarico di responsabilità effettuato dal Ministero e nell’incertezza del quadro giurisprudenziale all’epoca dell’introduzione del giudizio
Per la Suprema Corte i motivi sono fondati. Quanto alla denuncia di violazione della regola di riparto dell’onere della prova, la Cassazione intende dare continuità alla sua stessa giurisprudenza secondo cui “nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo di cui alla l. n. 210 del 1992 può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (“compensatio lucri cum damno“) solo se sia stato effettivamente versato o, comunque, sia determinato nel suo preciso ammontare o determinabile in base a specifici dati della cui prova è onerata la parte che eccepisce il lucrum“.
E’ il ministero a dover dimostrare se la danneggiata ha ricevuto di indennizzo dalla legge 210
Quindi, la corte territoriale ponendo a carico della danneggiata l’onere della prova dell’ammontare dell’indennizzo, “ha violato tal principio di diritto, posto che parte interessata ad eccepire il “lucrum” è il Ministero.
Quanto al motivo riguardante l’omessa condanna del Ministero a rimborsare la danneggiata dell’importo che era stata condannata a pagare alla struttura sanitaria a titolo di spese processuali, i giudici del Palazzaccio premettono che la sentenza del 20 febbraio 2018 era stata impugnata “non con riferimento al rapporto processuale con la struttura sanitaria, in relazione al quale essa ha natura di sentenza parziale per avere, con la liquidazione delle spese processuali, definito la relativa controversia: ove il ricorso fosse stato proposto nei confronti della struttura sarebbe stato inammissibile in quanto la ricorrente avrebbe dovuto proporre impugnazione immediata, trattandosi, quanto al rapporto processuale con la struttura, non di sentenza non definitiva, ma di sentenza parziale. La sentenza è invece chiaramente non definitiva quanto al rapporto processuale con il Ministero ed è suscettibile pertanto di riserva di ricorso, nella specie ritualmente proposta”.
Infatti, prosegue la Cassazione, la censura non riguarda “il provvedimento sulle spese processuali in favore della struttura sanitaria ma l’omessa pronuncia in ordine all’istanza di rivalsa proposta nei confronti del Ministero per le spese che l’appellante avrebbe dovuto sopportare in virtù del capo di condanna in favore della struttura sanitaria. Che l’oggetto della domanda fosse quello di tenere indenne la parte delle spese sopportate per rifondere la struttura sanitaria delle spese processuali lo si intende dal contenuto del primo motivo, dove si fa espressamente riferimento ad un obbligo di rimborso in favore della ricorrente”.
Accolto pertanto anche il secondo motivo del ricorso, sentenza cassata e rinvio della causa alla Corte d’appello felsinea in diversa composizione.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Categoria:
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