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Il medico, se è stato accertato che la sua negligenza è risultata determinante nel decesso di un paziente, non può addurre a sua scusante lo stato di salute già precario di quest’ultimo, la cosiddetta “comorbilità”, perché “le condizioni patologiche preesistenti devono essere riguardate come concause dell’evento, che sono irrilevanti agli effetti della determinazione e commisurazione della responsabilità”. A riaffermare questo fondamentale principio a tutela dei malati la Cassazione con l’ordinanza n. 31058/23 depositata l’8 novembre 2023.

I familiari di un paziente deceduto per ictus cerebrale citano in causa l’ospedale

I familiari di un uomo avevano citato in giudizio avanti il tribunale di Napoli l’Azienda ospedaliera locale chiedendo il risarcimento dei danni patiti in seguito al decesso del loro congiunto che addebitavano a responsabilità dei sanitari della struttura. Il paziente era stato ricoverato in ospedale con diagnosi all’ingresso di “ictus cerebrale ed emiparesi lato destro, per lesione vascolare cerebrale a sinistra con infarcimento secondario“: era stato quindi dimesso e poi trasferito, per la prevista riabilitazione motoria, in un centro clinico, dove però aveva palesato ripetute crisi convulsive. Era stato quindi ricondotto, in stato soporoso, in ospedale nel reparto di Rianimazione, dove gli era stata diagnosticata l’insorgenza di un nuovo ictus cerebrale all’emisfero di destra, a causa del quale era rimasto in un gravissimo stato di salute per oltre tre mesi, sino alla decisione dei medici di trasferirlo presso l’Istituto Europeo di Riabilitazione, dove tuttavia era peggiorato ulteriormente fino al decesso.

Secondo i congiunti i medici non avrebbero monitorato e curato adeguatamente il loro caro

Secondo i suoi congiunti i sanitari avrebbero omesso un adeguato monitoraggio del paziente dal primo ricovero alle dimissioni, avvenute dopo appena sei giorni dall’episodio ischemico cerebrale, senza neppure la prescrizione di un idoneo programma terapeutico e di controlli specialistici e strumentali, disponendo invece il rinvio a domicilio con l’erronea prescrizione di precoci terapie riabilitative da effettuarsi presso il centro clinico, dove peraltro non erano disponibili posti letto e che non era attrezzato a gestire un paziente ad alto rischio di vita. Per i suoi familiari, quindi, il secondo e più grave episodio ischemico cerebrale si sarebbe potuto scongiurare, con alta probabilità, se fosse stato evitato lo stress riabilitativo al quale il paziente era stato precocemente sottoposto e se non fossero state omesse le cure necessarie in tempi e in modi adeguati.

 

La Corte d’appello accoglie la domanda ritenendo inadeguata la condotta dei sanitari

Il giudice tuttavia, instaurato il contraddittorio e disposta la consulenza tecnica medico legale, con sentenza del 2012 aveva respinto la domanda, ma la Corte d’appello partenopea, avanti la quale i parenti della vittima avevano interposto gravame, dopo aver ordinato una nuova Ctu medico legale, in totale riforma della decisione di prime cure, con sentenza del 2020 avevano invece accolto le istanze risarcitorie, condannando l’azienda ospedaliera a liquidare le somme determinate.

Secondo il consulente tecnico, la condotta dei sanitari dell’Azienda ospedaliera durante il ricovero del paziente era stata effettivamente “inidonea, in quanto non aderente ai protocolli medici prescritti all’epoca dei fatti per l’ictus cerebrale ischemico, tenuto conto delle condizioni personali del paziente. La complessiva inidonea interpretazione del quadro clinico manifestato dal (omissis) come evidenziabile per la mancanza delle indagini diagnostiche e delle conseguenti idonee decisioni terapeutiche, nonché l’insufficiente monitoraggio del paziente, permette di esprimere una valutazione, seppure in termini probabilistici, circa l’esistenza di concausalità efficiente e determinante fra l’inidoneo operato dei sanitari dell’Aorn che lo ebbero in cura il paziente, l’insorgenza del secondo grave ictus ischemico e la morte dello stesso: il caso in esame peraltro non implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà” per citare le conclusioni del Ctu, per il quale “tale carenza assistenziale ha configurato perdita di chances di sopravvivenza del 30% rispetto all’evento-morte”. In conclusione, “l’omissione dei sanitari non si è inserita in un processo irreversibile che avrebbe comunque portato al secondo ictus e poi al decesso quattro mesi dopo, ma l’interruzione del farmaco dicumarolico ha costituito una determinante concausa del secondo ictus e dell’exitus del paziente, giacché, se fosse stata tenuta la condotta alternativa corretta, il decesso non si sarebbe verificato secondo il “più probabile che non“”.

 

L’azienda ospedaliera ricorre per Cassazione puntando sulla “comorbilità” della vittima

L’azienda ospedaliera, tuttavia, ha proposto ricorso per Cassazione battendo, tra i vari motivi di censura, per l’appunto sulle precarie condizioni di salute pregresse del paziente che, pur avendo solo 55 anni, risultava affetto anche da ipertensione, tabagismo, obesità e Bpco, che verosimilmente avevano determinato il primo ictus cerebrale. Secondo il consulente tecnico nominato dalla Corte d’appello, la vittima era sì affetta da un complesso invalidante derivante dalle pregresse comorbilità ma, di per sé sola, questa invalidità non era idonea a produrre in concreto esiti mortali. Secondo l’ospedale, invece, la Corte territoriale avrebbe omesso di spiegare le ragioni in virtù delle quali si era discostata dalla variegata fonte di prova e dalle specifiche allegazioni difensive prodotte anche in sede di appello che attestavano la preesistenza di una severa comorbilità di cui era portatore il paziente e la sua “rilevanza eziologica”.

Ma la Suprema Corte respinge le doglianze

Per la Suprema Corte tuttavia il motivo è inammissibile. “Le condizioni di comorbilità del paziente sono state considerate dalla Corte, tanto che, proprio per meglio comprendere la rilevanza causale di tali preesistenze e, per converso, quella della condotta inadempiente dei sanitari della struttura, era stato disposto il richiamo del Ctu. Altrettanto è a dirsi quanto al rilievo, presente nella relazione del consulente tecnico, secondo cui con la dovuta riabilitazione il paziente avrebbe potuto, con alta probabilità, recuperare parzialmente una certa autonomia motoria e, con una corretta terapia ed un sano stile di vita (interruzione del fumo, regime dietetico, etc.)” obietta la Cassazione, respingendo quindi fermamente il vizio di omesso esame sostenuto dalla ricorrente e una contraddizione nelle affermazioni del perito.

La valutazione del consulente tecnico, fatta propria dalla Corte d’appello, secondo cui vi è nesso causale tra la condotta dei sanitari (in particolare per la da loro prescritta interruzione del farmaco anticoagulante salvavita) e il secondo più grave attacco ischemico che ha condotto a morte il paziente non è in insanabile contrasto logico con la precedente affermazione secondo cui anche l’adozione di un sano stile di vita avrebbe potuto ridurre il rischio di eventi avversi di natura cardiovascolare ed in particolare di un secondo ictus cerebrale. Si è trattato di una valutazione prognostica che indicava, come funzionali alla riduzione del rischio morte, due fattori: una corretta terapia e una revisione migliorativa delle abitudini del paziente, fumo e dieta” proseguono i giudici del Palazzaccio. E aggiungono. “La successiva chiara ed esplicita valutazione secondo cui l’interruzione del farmaco dicumarolico ha costituito una determinante concausa del secondo ictus e dell’exitus del paziente, giacché, se fosse stata tenuta la condotta alternativa corretta, il decesso non si sarebbe verificato secondo il “più probabile che non”, sul piano logico non disvela alcuna contraddizione con la precedente affermazione, tanto meno insanabile. Essa sta piuttosto e del tutto coerentemente a evidenziare che il venir meno del primo fattore è di per sé valso a rendere attuale e concretizzare quel rischio, rendendo vana ogni attesa prognostica legata anche al secondo”.

 

Le patologie pregresse non escludono le responsabilità dei medici per i loro errori determinanti

La Cassazioni riconosce che la condotta dei sanitari “costituisce certo una concausa che a tale evento ha condotto insieme con le condizioni patologiche preesistenti”, e tuttavia, proseguono gli Ermellini, “è una concausa di rilievo determinante, alla luce delle valutazioni dell’ausiliario secondo cui l’omissione dei sanitari dell’A.O. (come già scritto, ndr) non si è inserita in un processo irreversibile che avrebbe comunque portato al secondo ictus e poi al decesso quattro mesi dopo, ma l’interruzione del farmaco dicumarolico ha costituito una determinante concausa del secondo ictus e dell’exitus del paziente, giacché, se fosse stata tenuta la condotta alternativa corretta, il decesso non si sarebbe verificato secondo il “più probabile che non”.

Ed è qui che la Suprema Corte rammenta che queste condizioni preesistenti sono da considerare quali concause dell’evento che, “secondo insegnamento da tempo acquisito, sono irrilevanti agli effetti della determinazione e commisurazione della responsabilità”. In base infatti al “principio dell’equivalenza causalel’autore del comportamento imputabilerisponderà per intero delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo, ancorché a quest’ultimo abbia concorso, sia pure con rilievo preponderante, la causa naturale preesistente conclude nel respingere il ricorso la Cassazione, citando il “caso di scuola” dell’emofiliaco “cui venga inflitta una minuscola ferita: principio del nothing or all o thin skull rule”.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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