Con una sentenza “shock” e al limite dell’offensivo una Corte d’appello aveva risarcito i figli di una donna deceduta a causa di una trasfusione da sangue infetto con un importo di più di tre volte inferire al minino tabellare previsto dalla Tabelle Milanesi, criterio a cui pure i giudici avevano specificato di far riferimento, adducendo giustificazioni quali il fatto che la vittima sarebbe stata anziana e malata.
Ma la Cassazione, con la rilevante ordinanza n. 26440/22 depositata l’8 settembre 2022, ha censurato con forza tali conclusioni rendendo giustizia ai familiari e, soprattutto, chiarendo che quando la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d’un congiunto avviene in base ad un criterio “a forbice”, che preveda un importo variabile tra un minimo ed un massimo, “è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie”, e non sono tali “né l‘età della vittima, né quella del superstite, né l’assenza di convivenza tra l’una e l’altro, circostanze tutte che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento all’interno della fascia di oscillazione tra minimo e massimo tabellare”.
Indice
I figli di una donna deceduta per trasfusione da sangue infetto citano il Ministero della Salute
Nel 2008 i familiari di una donna deceduta in quello stesso anno a causa di una infezione dal virus Hcv (l’epatite C) contratta in seguito ad una emotrasfusione con sangue infetto avevano citato in giudizio avanti al Tribunale di Catanzaro il Mistero della Salute chiedendo il risarcimento dei danni da perdita del proprio congiunto.
La domanda, con decisione del 2017 era stata rigettata dal giudice ritenendo prescritto il credito, ma la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 2019, accogliendo il gravame delle parti offese, in totale riforma del pronunciamento di prime cure aveva condannato il Ministero a rifondere la somma di cinquantamila euro, comprensiva degli interessi compensativi, in favore di ciascuno degli eredi, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
La Corte d’Appello accoglie la domanda ma riconosce un risarcimento sotto i minimi tabellari
La Corte territoriale, dopo aver premesso che “la prova del pregiudizio resta affidata alla sola relazione di parentela, non avendo pare attrice approfondito probatoriamente tale aspetto”, ha motivato la “esigua” entità della liquidazione per il fatto che la vittima aveva a 79 anni al momento della morte e non godeva di buona salute, ragion per cui per i suoi figli il decesso “non appariva di certo imprevedibile”, e che non vi era prova che i figli convivessero ancora con la madre, ed erano tutti adulti e autonomi, concludendo pertanto che risultava equo ridimensionare la misura standard del risarcimento previsto dalla tabella del Tribunale di Milano, riducendola e di molto rispetto al suo importo minimo, che sarebbe stato pari a 163mila euro.
I figli della vittima ricorrono per Cassazione lamentando il quantum
Contro tale sentenza, quasi offensiva in verità, i familiari della paziente hanno proposto ricorso per Cassazione, lamentando svariati errori da parte dei giudici territoriali: in primis, aver ritenuto che la loro madre avesse 79 anni, laddove invece ne aveva dieci di meno, 69, e che non fosse in buona salute, contrariamente a quanto invece risultava dagli atti e dalla consulenza tecnica d’ufficio; inoltre, aver liquidato una somma identica a tutti i figli nonostante il rilevante divario di età tra il più giovane, di 26 anni, e il più “anziano”, di 46; ancora, aver ritenuto che la “prevedibilità” della morte imminente di una persona cara costituisca circostanza idonea a ridurre la misura standard del risarcimento del danno non patrimoniale; averlo liquidato in misura inferiore al minimo “tabellare”, in violazione del principio secondo cui tale riduzione può avvenire solo in presenza di circostanze “eccezionali”, nel caso di specie assenti; aver riconosciuto importi assai inferiori a quelli accordati dallo stesso tribunale in casi analoghi.
Censure ritenute fondate e da accogliere per la gran parte dalla Suprema Corte. La Cassazione prende atto che la Corte d’Appello aveva ritenuto di liquidare il danno non patrimoniale patito dai ricorrenti per la perdita della loro congiunta applicando il criterio delle tabelle milanesi, e osserva anche come i giudici territoriali stessi avessero riferito che tale criterio adottato prevede che spetta al figlio, in caso di uccisione della madre per cosa altrui, un risarcimento a titolo di ristoro del danno non patrimoniale variabile tra 163.990 e 327.980 euro.
Tuttavia, come si è visto, i giudici di secondo grado avevano ritenuto di stimare il danno in soli 50mila euro per ciascuno dei 14 figli della vittima, motivando questa sensibile decurtazione per il fatto che la loro madre era anziana, malata e che i figli erano ormai adulti e conducevano una loro vita “ormai avviata”
I principi dell’uniformità pecuniaria e della flessibilità della liquidazione
Ma così facendo, conviene la Cassazione con i ricorrenti, la Corte d’Appello di Catanzaro “ha effettivamente violato l’art. 1226 c.c”. Infatti, proseguono gli Ermellini, la liquidazione di pregiudizi sine materia come il danno da uccisione del prossimo congiunto può dirsi “equa” – per i fini di cui all’art 1226 c.c. – quando sia compiuta con un criterio che rispetti due principi: garantisca la parità di trattamento a parità di danni e un’adeguata flessibilità per tenere conto delle peculiarità del caso concreto.
“Uniformità pecuniaria di base e flessibilità della liquidazione sono i due momenti indefettibili di ogni liquidazione dei pregiudizi non patrimoniali” asseriscono i giudici del Palazzaccio, specificando anche che il rispetto del primo principio esige il ricorso, da parte del giudice di merito, “ad un criterio prestabilito e standard di liquidazione”, e questo (sulla carta) la sentenza impugnata lo aveva fatto, dichiarando (salvo poi non mantenendo le premesse) di applicare le tabelle del tribunale di Milano.
Il rispetto invece del principio della “flessibilità” della liquidazione, prosegue la sentenza della Cassazione, esige che “si accertino tutte le circostanze di fatto rilevanti nel caso concreto, per quanto dedotto e provato dalle parti; si sceverino quelle ordinarie da quelle eccezionali; si attribuisca rilievo solo alle seconde, per aumentare o diminuire lo standard del risarcimento”.
A questo punto la Cassazione spiega anche in cosa debba dipendere la distinzione tra conseguenze “ordinarie” ed eccezionali del fatto lecito consistito nell’uccisione di un partente: “andranno reputate ordinarie quelle conseguenze che qualunque persona della stessa età, dello stesso sesso e nelle medesime condizioni familiari della vittima non avrebbe potuto (presumibilmente) non subire; andranno invece ritenute eccezionali, e quindi idonee a giustificare una variazione del risarcimento (beninteso, tanto in aumento quanto n diminuzione), quelle circostanze legate all’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale”.
Età della vittima e convivenza consentono solo un’oscillazione tra il massimo e il minimo
Conseguenza di tutto questo ragionamento è che, prosegue la Suprema Corte, “l’età della vittima, l’età del superstite, la convivenza dell’una con l’altro, la costruzione di un nucleo familiare autonomo del secondo avrebbe potuto sì consentire una variazione della liquidazione tra il minimo e il massimo tabellare, ma non una liquidazione inferiore al minimo”. L’incidenza del danno di quelle circostanze di fatto (età e convivenza), infatti, debbono presumersi “comuni a tutte le vittime della stessa età e delle stesse condizioni familiari dei ricorrenti”, e rappresentano pertanto “conseguenze ordinarie” la cui oscillazione “giustifica la divergenza tra minimi e massimi tabellari”. Ma una liquidazione del danno inferiore al minimo tabellare avrebbe presupposto, sottolinea la Cassazione, “l’accertamento di ulteriori e diverse circostanze di fatto, quali, ad esempio, l’assenza di un saldo vincolo affettivo, l’esistenza di dissapori familiari, anaffettività del superstite nei confronti del defunto”.
La Cassazione dedica poi un “cenno a parte” alla valutazione con cui la Corte territoriale aveva ritenuto di liquidare ai figli delle vittima un importo pari al meno di un terzo del minimo tabellare in base all’assunto che la vittima al momento della morte fosse “vecchia e malata”, e di conseguenza i figli si sarebbero dovuti aspettare da un momento all’altro che la madre venisse a mancare.
“L’età della vittima costituisce un fattore di cui tenere conto nella valutazione del risarcimento standard, e dunque può giustificare l’oscillazione del quantum debeatur tra il massimo e il minimo tabellare, ma non consente di scendere al di sotto del minimo, sia perché l’età anagrafica è un fatto naturale e non eccezionale, sia perché l’età avanzata di una madre consente alla statistica, ma non ai suoi figli, di fare previsioni sulla residue speranza di vita” ribadisce la Suprema corte, citando anche la massima latina “nemo est tam senex qui se annum non putet posse vivere”.
Quanto poi alla malattia della vittima, giusta o sbagliata che fosse tale valutazione in punto di fatto (questione a cui non è consentito alla Suprema corte di indagare), la Cassazione riafferma con forza il principio che “uccidere una persona già malata è pur sempre omicidio” e che “non è possibile stabilire in astratto alcun automatismo tra la malattia del defunto e il minor dolore provato dal familiare superstite. Se è vero infatti che le avversità previste ed attese si affrontano di norma con animo più forte, non è men vero che la malattia di una persona cara può suscitare nei suoi familiari più intesi affetti, senso di protezione e commozione per la sorte della persona cara”.
Pertanto, le pregresse condizioni di salute della vittima (a condizione che non fossero anch’esse conseguenza del fatto illecito), “potranno bensì giustificare un abbattimento della misura standard del risarcimento, ma sulla base di una valutazione ex post e non ex ante e senza alcun automatismo”.
La Cassazione ha quindi accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e con l’occasione affermato il principio di diritto che dovrà guidare il giudice del rinvio, la Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, nella rivalutazione della causa: “quando la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d’un congiunto avvenga in base ad un criterio “a forbice”, che preveda un importo variabile tra un minimo ed un massimo, è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie. Tali non sono né l’età della vittima, né quella del superstite, né l’assenza di convivenza tra l’una e l’altro, circostanze tutte che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento all’interno della fascia di oscillazione tra minimo e massimo tabellare”.
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