E’ giusto che chi non paga le tasse dovute venga perseguito, ma è altrettanto giusto che chi è stato ingiustamente sanzionato dal Fisco venga risarcito dei danni subiti. Di una vicenda simile si è occupata la Cassazione con l’ordinanza n. 5984/23 depositata il 28 febbraio 2023.
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Un imprenditore finito ingiustamente sotto processo per evasione fiscale chiede i danni
A avviare la causa, nel 2009, era stato l’amministratore di un concessionario di automobili che aveva citato in giudizio avanti il Tribunale di Tivoli l’Agenzia delle Entrate e due “verificatori” degli uffici dell’agenzia della stessa Tivoli per essere risarcito dei danni patiti a causa di un’ispezione fiscale, relativa agli anni d’imposta 2003 e 2004, effettuata nel maggio del 2006, presso la sua azienda per la verifica dei rapporti commerciali intrattenuti con un’altra società del settore.
Al termine dell’ispezione, i verificatori avevano qualificato alcuni acquisti di auto usate in parte come operazioni inesistenti e in parte come operazioni intracomunitarie, in regime di margine, all’esito delle quali era emersa l’omissione nelle fatture emesse della relativa Iva per un ingente importo. A seguito di ciò erano stati aperti, a carico dell’amministratore, diversi accertamenti fiscali da parte delle competenti autorità e due procedimenti penali.
Nel corso di questi ultimi però erano stati rilevati alcuni errori grossolani commessi dai verificatori, relativi all’erronea qualificazione come intracomunitaria dell’acquisto di due vetture, effettivamente risultanti di provenienza italiana. I due procedimenti penali erano stati così definiti, rispettivamente, con un provvedimento di archiviazione del Pubblico Ministero e con una sentenza di “non doversi procedere perché il fatto non sussiste” del Gup. Vicende giudiziarie, queste, che avevano avuto pesanti ripercussioni sulla vita lavorativa ma anche sulla salute dell’indagato, che quindi aveva deciso di chiedere i danni.
La Corte d’appello riconosce la responsabilità colposa degli agenti del Fisco e il risarcimento
Il Tribunale tuttavia aveva respinto la sua domanda risarcitoria, rilevando il mancato assolvimento dell’onere probatorio, che gravava su di lui, relativo al profilo soggettivo della condotta degli agenti verificatori. Il giudice di prime cure non aveva infatti ritenuto sufficiente, ai fini della sussistenza della responsabilità civile da parte degli ispettori, l’esito dei due giudizi penali, favorevoli al contribuente, ritenendo che ciò rientrasse nella normale fisiologia delle vicende processuali.
L’imprenditore aveva allora appellato la sentenza avanti la Corte d’Appello di Roma, ribadendo la fondatezza della propria domanda risarcitoria ed evidenziando che l’errore commesso dai verificatori, nell’includere, tra le autovetture in relazione alle quali era stata ipotizzata l’applicazione del regime del margine, due auto acquistate in Italia, aveva comportato che la contestazione dell’Iva evasa superasse la soglia di punibilità di 103.291 euro prevista dall’art. 4 del d.lgs. 74/2000. E i giudici di secondo grado, con sentenza del 2019, in riforma della decisione di prime cure, gli avevano dato ragione, condannando gli agenti del Fisco al risarcimento dei danni patiti dell’amministratore della società, oltre alla refusione delle spese di giudizio. In particolare, la Corte territoriale aveva accertato la responsabilità colposa dei verificatori fiscali per i fatti erroneamente attribuiti all’appellante all’esito dell’ispezione fiscale e che, come detto, avevano dato origine a due procedimenti penali a suo carico, condannandoli al risarcimento dei danni non patrimoniali, quantificati in 20mila euro.
A questo punto sono stati l’agenzia delle entrate e i due suoi dipendenti a ricorrere per Cassazione contro il verdetto d’appello, lamentando innanzitutto il fatto che la Corte territoriale avrebbe erroneamente attribuito alla colpa grave e alla negligenza degli agenti verificatori le gravi conseguenze derivanti dall’apertura dei due procedimenti penali in capo all’amministratore della società sottoposto alla verifica fiscale, sostenendo che la sussistenza della responsabilità non sarebbe riconducibile alla mera presentazione della denuncia a suo carico poiché tale atto rivestirebbe la natura di atto dovuto, per i pubblici ufficiali ai quali l’art. 361 c.p. impone un obbligo di denuncia per i fatti di reato, appresi nell’esercizio o a causa delle funzioni, il cui ritardo od omissione è penalmente sanzionato.
I ricorrenti, proseguendo nella loro tesi difensiva, hanno chiarito che nei casi in cui la polizia tributaria, nell’esercizio delle funzioni amministrative, rilievi la presenza di violazioni costituenti reato, su di essa ricade l’obbligo di comunicare, senza ritardo, all’Autorità giudiziaria la notizia del reato ai sensi dell’art. 347 del c.p.p., e tale obbligo ricade, ugualmente, in capo ai funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 331 del cod. proc. penale, 51 del d.P.R. n. 633/1972 e 31 del d.P.R. n. 600/1973.
Attribuzione a loro carico dell’errore e della colpa grave
Inoltre, secondo i ricorrenti la Corte d’appello capitolina avrebbe sbagliato anche nel ritenere rilevante l’errore dei verificatori ai fini della sussistenza del danno provocato all’imprenditore dall’apertura dei procedimenti penali a suo carico, mancando, a tal fine, la prova del nesso causale tra l’errore e il fatto causativo del danno e/o la prova del medesimo. Anche senza il loro errore, infatti, sarebbe stata comunque superata la soglia di punibilità prevista, a norma dell’art. 4, d.lgs. n. 74/2000, per la dichiarazione infedele resa dalla società. Più precisamente, secondo i ricorrenti, posto che l’Iva di cui era contestata l’evasione ammontava “pacificamente” a oltre 130mila euro, computando in diminuzione l’importo di quella riferita alle due auto in realtà già acquistate in Italia, pari a 8.465 euro, l’importo sarebbe risultato di quasi 122mila euro e quindi superiore, appunto, alla soglia di punibilità, con conseguente permanenza dell’obbligo di denuncia.
Dunque, ricapitolando, la sentenza della Corte territoriale, nell’affermare che l’errore aveva dato luogo al procedimento penale, avrebbe violato gli artt. 1223 cod. civ. e 2697 cod. civ., non sussistendo il nesso causale tra l’errore e il fatto causativo del danno e/o la prova dello stesso nesso causale, e ciò anche in quanto, per effetto di un’erronea applicazione dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, avrebbe implicitamente ritenuto che in assenza dell’errore l’Amministrazione non avrebbe dovuto procedere alla denuncia criminis e/o che il procedimento penale sarebbe stato archiviato.
La suprema Corte, prima di esaminare i motivi di doglianza, premette innanzitutto che l’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, “deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell’art. 2043 c. c., per cui è consentito al giudice ordinario di accertare se vi sia stato da parte della stessa pubblica amministrazione un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale”.
Se il Fisco tiene condotte dolose o colpose, e qui la colpa era grave, deve risponderne ai danneggiati
Ebbene, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale, sulla base del discrezionale potere valutativo che le spetta, ha ritenuto che sussistesse la violazione dell’art. 2043 cod. civ., “affermando, con motivazione congrua e logica, che l’errore commesso dagli accertatori dell’ufficio, al quale era stata anche rivolta formale istanza di provvedimento in autotutela da parte dell’Ufficio competente, ma senza alcun esito, ha concretizzato i presupposti della colpa grave”. La Suprema Corte precisa peraltro che i verificatori dell’Agenzia non sono stati ritenuti responsabili ex art. 2043 cod. civ. per la denuncia in sé, bensì “per le risultanze dei loro accertamenti, che, se fossero stati effettuati correttamente, non avrebbero indotto il Pubblico Ministero ad esercitare l’azione penale”.
Né ad esimente di tale responsabilità, aggiungono i giudici del Palazzaccio, può valere la circostanza che le conclusioni degli accertatori sono state avallate dall’Ufficio del Pm, “considerato che quest’ultimo è stato tratto in errore proprio dalla erroneità degli accertamenti effettuati dagli accertatori e dalle loro conclusioni”.
Rigettata anche la doglianza circa i calcoli effettuati dalla Corte territoriale in relazione all’importo dell’Iva contestata all’amministratore della società, censura, questa, “che entra nel merito della valutazione della sentenza gravata, risultando di conseguenza inammissibile per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo motivo, in quanto, oltre ad afferire ad insindacabili valutazioni di merito, introduce nel presente giudizio di legittimità nuovi dati, mai contestati nei precedenti gradi di giudizio, i quali, oltretutto, non risultano né coerenti né comprensibili”. Il ricorso è stato dunque rigettato e il risarcimento alla vittima dell’errore fiscale confermato.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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