Il danno da esposizione all’amianto è uno dei pregiudizi più frequenti e, purtroppo, dagli esiti spesso tragici subiti dai lavoratori del nostro Paese. Ma come va liquidato? Fondamentale al riguardo la sentenza n. 35416/22 della Cassazione depositata il primo dicembre 2022 che ha stabilito alcuni principi chiave a tutela dei danneggiati.
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Un lavoratore cita in causa l’Autorità portuale per i danni da esposizione all’amianto
La vicenda. Un lavoratore portuale aveva proposto, avanti al Tribunale di Venezia, due distinti ricorsi contro la locale Autorità portuale, per la quale aveva lavorato dal 1963 al 1994 e l’Inail, asserendo che, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, era stato esposto all’inalazione di fibre d’amianto e aveva contratto, di conseguenza, un adenocarcinoma diagnosticatogli il 4 febbraio 2014. Di qui la sua richiesta di condanna del datore di lavoro a risarcirgli i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e dell’Inail a pagargli una rendita in riferimento ad un’inabilità permanente del 100% in luogo di quella già riconosciutagli del 60%.
Il Tribunale, riunite le cause, aveva condannato l’Autorità portuale lagunare a corrispondere al suo ex dipendente l’importo di 281.565 euro a titolo di risarcimento del danno biologico temporaneo e permanente differenziale e l’Inail ad adeguare la rendita corrisposta al danneggiato nella misura del 75% a decorrere dal mese di settembre 2015.
Il lavoratore aveva però appellato la sentenza chiedendo (anche) il riconoscimento del danno biologico temporaneo per il periodo 2012-2014, dell’invalidità a partire dal 9 gennaio 2014 e della liquidazione del danno non patrimoniale sulla base delle tabelle milanesi, nonché una nuova quantificazione delle spese di lite. E aveva altresì richiesto una rideterminazione globale del quantum risarcibile sulla base di un dedotto aggravamento della patologia a partire dal 2016. E la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 2019, aveva accolto in parte l’appello, applicando le tabelle milanesi e rideterminando l’entità delle spese di lite.
Il datore di lavoro ricorre per Cassazione, contro il riconoscimento dell’invalidità permanente
Contro quest’ultima decisione l’Autorità portuale ha proposto ricorso per Cassazione a cui i familiari dell’operaio, nel frattempo deceduto, hanno opposto un ricorso incidentale. La ricorrente principale, in buona sostanza, ha censurato il fatto che la corte territoriale, a suo dire, avrebbe errato nel liquidare un danno da invalidità permanente, nonostante la patologia del lavoratore fosse ancora in atto, sul presupposto che la malattia fosse ormai stabilizzata. E inoltre ha contestato l’utilizzo, ai fini della liquidazione del danno da invalidità permanente, delle tabelle elaborate dai Tribunali, le quali parametrano il danno risarcibile alla speranza di vita media di un individuo della medesima età in Italia, senza tenere conto del fatto che la speranza di vita dell’individuo affetto da una grave patologia tumorale non è paragonabile a quella di una persona comune.
Ma per la Suprema Corte la doglianza va respinta, in primis nella parte in cui lamenta il riconoscimento di un danno biologico permanente nonostante la persistenza della malattia. “Per danno biologico deve intendersi la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito” premettono gli Ermellini.
I postumi invalidanti e l’inabilità temporanea
Nell’ambito del danno biologico, proseguono i giudici del Palazzaccio, occorre distinguere i postumi invalidanti che, “in ragione del loro collocarsi cronologicamente in un tempo successivo rispetto ad un pregresso diverso stato patologico, si qualificano come in-emendabili per la loro natura permanente;” l’inabilità temporanea (assoluta o parziale), “che consiste nel periodo di incapacità ad attendere a qualsiasi attività – inabilità totale – o soltanto ad alcune attività – inabilità parziale – della vita quotidiana, situazione patita dal soggetto, a causa della lesione della salute, prima di essere ritenuto dai medici clinicamente guarito“, e che coincide, pertanto, con il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico, “ed al quale consegue il ripristino della condizione di salute antecedente il sinistro (qualora dalla terapia non esitino condizioni menomative) ovvero la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti (qualora al termine delle terapie esitino menomazioni o condizioni peggiorative in-emendabili)”.
Ai fini della liquidazione del danno biologico, che consegue alla lesione dell’integrità psico-fisica della persona, devono quindi formare oggetto di autonoma valutazione “il pregiudizio da invalidità permanente (con decorrenza dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi) e quello da invalidità temporanea (da riconoscersi come danno da inabilità temporanea totale o parziale ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l’aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto)”.
Per la determinazione complessiva del danno non patrimoniale, si deve tenere conto, inoltre, “delle sofferenze morali soggettive, eventualmente patite dal soggetto in ciascuno degli indicati”.
“La Suprema Corte – continua la sentenza – ha accolto una nozione medico legale di malattia, per la quale l’invalidità permanente costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all’esito di un periodo di malattia e non può, quindi, sussistere prima della sua cessazione”: al riguardo, fanno notare i giudici del Palazzaccio, la stessa Suprema Corte ha precisato, in tema di reato di lesioni personali (ma tale definizione è tranquillamente esportabile in ambito civile), “che essa consiste in qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, anche se localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione”.
Perciò, in tema di danno biologico, “la cui liquidazione deve tenere conto della lesione dell’integrità psicofisica del soggetto sotto il duplice aspetto dell’invalidità temporanea e di quella permanente, quest’ultima è suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l’individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi”. Ne consegue che il danno biologico di natura permanente deve essere determinato dalla cessazione di quello temporaneo, “giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno”.
Il caso della malattie in stabilizzazione solo temporanea come le neoplasie polmonari
Nel caso di specie, invece, la corte territoriale aveva riconosciuto il danno da lesione permanente della salute in presenza di una malattia (una neoplasia polmonare) “che non era purtroppo venuta meno, ma che si trovava in una fase di remissione clinica che corrispondeva ad una di stabilizzazione temporanea”. E infatti i familiari della vittima sostenevano che l’accoglimento del ricorso sul punto avrebbe portato alla situazione assurda per la quale “il malato non guarito non potrebbe ottenere il danno biologico successivo alla sua stabilizzazione e che, quindi, proprio la stabilizzazione dovrebbe essere equiparata alla guarigione, in presenza di malattie che, come le neoplasie polmonari dovute all’avere respirato particelle di amianto, possono definirsi ad evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole”.
Per risolvere la questione, prosegue la Cassazione, occorre partire dalla nozione di malattia e comprendere “quali ne siano gli esiti possibili. Questa consiste nella lesione inferta alla integrità di una persona che determina un’alterazione in peius delle pregresse condizioni psicofisiche del soggetto. Tale nuovo stato in cui viene a versare tale soggetto dopo la lesione è destinato a cessare all’esito del periodo di convalescenza: con la guarigione, ossia con il ripristino delle condizioni di salute anteriori o comunque senza reliquati invalidanti; con la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute (invalidità permanente); con la perdita totale di capacità biologica del soggetto conseguente al decesso”.
Pertanto, l’affermazione che è possibile individuare un danno biologico permanente esclusivamente dopo il decorso e la cessazione della malattia “deve essere intesa nel senso che, ad assumere rilievo, è la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute” dopo il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico.
Il danno terminale
A diverse conclusioni occorre invece giungere in presenza degli ulteriori possibili esiti della menzionata alterazione peggiorativa. Infatti, “la guarigione può giustificare solo il risarcimento di un danno biologico temporaneo. In ipotesi di decesso, avvenuto senza stabilizzazione, invece, può rilevare il cosiddetto danno terminale, il quale è una forma lessicale descrittiva di un danno biologico temporaneo che consiste nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l’exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica. Esso va liquidato o utilizzando il criterio equitativo puro o le apposite tabelle, ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno.
In particolare, il danno biologico da postumi invalidanti di natura permanente va distinto da quello alla persona determinato dalla lesione letale, “che esclude per antonomasia una guarigione e prelude al prossimo decesso. In quest’ultima ipotesi, il termine finale della condizione patologica transeunte, infatti, si identifica non nella intervenuta stabilizzazione delle minorate condizioni di capacità psicofisica, ma nell’evento-morte e prescinde da qualsiasi futura aspettativa di vita del soggetto danneggiato”.
Il danno terminale, in quanto “fenomenologicamente” riconducibile ad uno stato di malattia correlato ad una apprezzabile durata della inabilità biologica – tendenzialmente assoluta – del soggetto leso, “viene a replicare, quindi, la nozione di danno biologico da inabilità temporanea, al riguardo non assumendo rilevanza, sul piano giuridico, la peculiare natura della lesione e l’esito della malattia in quanto ab origine irrimediabilmente destinati ad estinguere lo stesso soggetto”.
Il danno catastrofale
Diverso ancora è il cosiddetto danno catastrofale, consistente nello stato di sofferenza spirituale per intima paura o patema d’animo sopportato dalla vittima nell’assistere alla progressiva distruzione della propria condizione esistenziale verso l’ineluttabile fine-vita. “In questo caso, l’accertamento in fatto dell’an, ossia della esistenza del danno-conseguenza, presuppone la prova della cosciente e lucida percezione, da parte del soggetto leso, dell’ineluttabilità della propria fine. Tale prova rimane, pertanto, esclusa laddove la morte sia sopraggiunta nell’immediatezza delle lesioni inferte alla vittima, o sia pervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo ma con soggetto leso inconsapevole o che versava in stato di incoscienza.
E’ chiaro, quindi, che esistono alcune patologie, sorte in seguito ad un “illecito extracontrattuale”, che, dopo un primo evento lesivo, determinano ulteriori conseguenze pregiudizievoli, le quali, però, costituiscono un mero sviluppo e un aggravamento del danno già insorto e non la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile. “In simili situazioni, dopo la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente, si è avuta la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute, ma è incontestabile che il danno biologico permanente rimanga tale, ancorché gli effetti dell’illecito ben possono accentuarsi, nonostante, tecnicamente parlando, la fase della “malattia”, nei termini sopra esposti, sia stata superata.
Le patologie dal probabile esito fatale
Vengono in rilievo, allora, patologie che si caratterizzano “per essere la morte un loro esito astrattamente possibile, ma del tutto incerto nel suo accadimento al momento del perfezionamento della fattispecie illecita. La menomazione, prevedibile, ma incerta nella sua verificazione futura, è fenomeno ricorrente nella medicina-legale, specificamente considerato nei barèmes che determinano il grado di invalidità biologica del soggetto anche in relazione a tali possibilità evolutive della patologia ed alla maggiore o minore prevedibilità delle complicanze in relazione alla peculiare condizione di salute riscontrata nel soggetto al momento delle indagini diagnostiche”: più alta è la probabilità di esito infausto, maggiore sarà il grado di invalidità.
Infatti, la medicina legale ha ben presente casi di menomazioni e patologie in potenza od ingravescenti che possono anche avere latenza sintomatica prolungata o dare luogo ad alterazioni psicofisiche ad andamento episodico od intervallate nel tempo, con possibilità di ripresa della malattia. “Siffatte patologie – in ordine alle quali la scienza medica ha acquisito un’affidabile conoscenza in base agli studi scientifici ed alla esperienza maturata in relazione alla statistica sanitaria ed ai risultati conseguiti con le terapie praticate – comportano per il paziente, in futuro, un maggiore rischio di peggioramento del suo stato di salute, rispetto a quelle patologie che, invece, determinano menomazioni stabilizzate”. Peraltro, questo maggiore rischio di aggravamento evolutivo della stessa patologia (anche alla morte), od anche di esposizione alla contrazione di altre malattie, “non costituisce una conseguenza-dannosa distinta rispetto a quelle pregiudizievoli per la salute riconducibili a quella medesima patologia, ma contribuisce ad integrare il “complessivo stato invalidante” che caratterizza la condizione biologica di quel soggetto e che si atteggia per il suo carattere ingravescente che può portare in futuro (secondo il giudizio di prevedibilità espresso dalle conoscenze medico-scientifiche del tempo) ad ulteriori complicanze od alla prematura morte. Il fatto che tale rischio si avveri o meno nel futuro, non fa venire meno la maggiore gravità della invalidità biologica accertata al tempo dell’evento lesivo della salute”.
Non a caso la Corte di cassazione (Cass., Sez. 3, n. 29492 del 14 novembre 2019) ha affermato che “l’incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare con la guarigione – con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo -, o, invece , con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute, o ancora con la morte”.
Le malattie ingravescenti implicano comunque un danno da invalidità permanente
Nel caso di patologie ingravescenti, “in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale, ma che – a seguito della lesione – determinano uno stato di invalidità del soggetto che trova espressione nei gradi percentuali definiti per ciascuna patologia dai barèmes elaborati dalla comunità scientifica ed utilizzati in medicina legale”, non viene dunque in questione un danno terminale o, comunque, un danno biologico da inabilità temporanea, “ma un danno biologico da invalidità permanente, atteso che i barèmes considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso, ovvero di incorrere in ulteriori complicanze incidenti peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all’originaria patologia”.
La nozione di aggravamento
Tali ipotesi definiscono la nozione di “aggravamento” che, nel sistema della responsabilità civile, “non determina l’insorgenza di un “nuovo” diritto risarcitorio – volto ad adeguare l’eventuale liquidazione dell’equivalente monetario corrispondente al valore del danno biologico, come già stimato al tempo della originaria lesione della salute ed interamente risarcito mediante adempimento spontaneo o mediante realizzazione coattiva del diritto -, non potendo perdurare in una sorta di quiescenza e poi risorgere ex novo un debito ormai definitivamente estinto”. L’aggravamento, infatti, costituisce la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era stata già considerata nella stima della ridotta validità biologica del soggetto residuata dopo la lesione.
Diverso ancora è il caso in cui, al tempo della lesione, l’ulteriore evento dannoso, manifestatosi a distanza di tempo, pur riconducibile eziologicamente alla originaria lesione, fosse stato invece – al tempo dell’accertamento del danno – “del tutto imprevedibile e sconosciuto alla scienza medica, e quindi non considerato dai baremes. In quest’ultima ipotesi, infatti, l’evento dannoso successivamente verificatosi vien ad incidere sul perfezionamento di tutti gli elementi della fattispecie illecita, e rendendo solo successivamente conoscibile la relazione di derivazione causale del “nuovo” danno dalla originaria lesione della salute, legittima la proposizione di una distinta domanda risarcitoria”.
Ne deriva quindi che, ove debba essere liquidato il danno biologico derivato da una malattia cosiddetta ingravescente, la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza dell’evoluzione o della ripresa della patologia non determina un nuovo danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, “atteso che l’exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta”.
La corretta valutazione della Corte di merito
Nella specie, pertanto, la Suprema Corte reputa corretto che il giudice di merito abbia qualificato il danno alla salute da esposizione all’amianto, derivato da patologia ingravescente, quale danno biologico permanente, liquidandolo applicando le corrispondenti tabelle milanesi. “E privo di rilievo è il decesso del danneggiato dopo la pronuncia di appello, dovendosi ritenere, in assenza di allegazione contraria, che il rischio dell’evento morte fosse già ricompreso nei barèmes utilizzati”.
Del resto, anche qualora fosse stata negata l’esistenza di un danno biologico permanente nel caso in esame, non per questo il risarcimento del danno lamentato sarebbe stato automaticamente escluso o ridotto significativamente. Infatti, “il danno subito dalla vittima, nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo, è configurabile e trasmissibile agli eredi, nella duplice componente di danno biologico terminale, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita; la liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all’indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente morale del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile exitus”.
Nel caso simile addotto ad esempio, la Cassazione aveva confermato la decisione dei giudici di merito che – accertata la responsabilità del datore di lavoro per la malattia professionale sofferta dal dante causa in seguito ad esposizione all’amianto – avevano utilizzato un criterio equitativo basato sul valore tabellare giornaliero della totale inabilità temporanea, incrementato per la personalizzazione dovuta alle circostanze del caso concreto, avuto riguardo alla evoluzione della patologia e al grado di sofferenza patita dalla vittima. “Si tratta di una vicenda nella quale non era in contestazione, davanti alla Corte di cassazione, la natura permanente o temporanea del danno biologico, con la conseguenza che il Collegio di legittimità non ha potuto affrontare la questione, ma, comunque, ha respinto il ricorso contro una decisione che aveva riconosciuto alla vittima di patologia ingravescente similare un significativo risarcimento in via equitativa, valorizzando al massimo l’avvenuta personalizzazione del pregiudizio.
Corretto anche l’utilizzo delle tabelle di Milano
Respinta anche la doglianza circa utilizzo, ai fini della liquidazione del danno da invalidità permanente, delle tabelle elaborate dai Tribunali, le quali parametrano il danno risarcibile alla speranza di vita media di un individuo della medesima età in Italia, senza tenere conto del fatto che la speranza di vita del paziente affetto da una grave patologia tumorale non è paragonabile a quella di una persona comune. Infatti, “le conseguenze delle malattie, prevedibili, ma incerte nella loro verificazione futura, sono di solito specificamente considerate nei barèmes che determinano il grado di invalidità biologica del soggetto anche in relazione a tali possibilità evolutive della patologia ed alla maggiore o minore prevedibilità delle complicanze in rapporto alla peculiare condizione di salute riscontrata nel soggetto al momento delle indagini diagnostiche. Il fatto che il rischio in esame si avveri o meno nel futuro, incidendo sulla durata della sopravvivenza, non altera la specifica gravità della invalidità biologica accertata al tempo dell’evento lesivo della salute, e non consente del pari una successiva modifica di tale accertamento medico-legale, espresso in termini di grado percentuale di invalidità biologica già comprensivo del potenziale peggioramento delle condizioni di salute determinato dal maggiore rischio indicato.
Infatti, nella responsabilità civile, a differenza che nel sistema delle assicurazioni sociali delle malattie professionali che risponde prevalentemente ad esigenze solidaristiche e previdenziali (com’è noto, nell’infortunistica del lavoro è prevista espressamente la possibilità, in caso di aggravamento, di una revisione della indennità erogabile in rendita, che può anche essere soppressa nel caso di recupero della integrità psicofisica), “alla progressiva ingravescenza della menomazione della salute non corrisponde analogo modo di essere e di modificazione incrementativa del danno biologico risarcibile”
Ne deriva che nella determinazione del danno operata avvalendosi delle tabelle ed alla luce delle concrete condizioni di salute del singolo “è già contenuta, per le stesse modalità di formazione di dette tabelle, la valutazione del periodo di sopravvivenza prevedibile in relazione alla patologia diagnosticata. Questa impostazione è confermata dalla giurisprudenza per la quale, in tema di liquidazione del danno alla persona, il cosiddetto rischio latente – ovvero, la possibilità che i postumi, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in una ulteriore invalidità o nella morte ante tempus – costituisce una lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale”. Ne consegue ulteriormente che, qualora il grado di invalidità sia determinato tenendo in conto tale rischio, “il danno biologico va liquidato in relazione alla concreta minore speranza di vita del danneggiato e non della durata media della vita; se, invece, il rischio latente non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal barème utilizzato o per omissione del consulente), il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto”.
Anche in questo caso la corte territoriale, con riferimento all’inabilità permanente, ha sostanzialmente seguito questi principi poiché aveva affermato che il dato circa l’aspettativa di vita è in via generale considerato in dipendenza del fattore età e può essere valorizzato, “anche rispetto ad un quadro potenzialmente o probabilmente ingravescente della patologia”, purché non siano elisi “i presupposti della risarcibilità della condizione invalidante”. Il giudice d’appello aveva tenuto conto “della specifica situazione soggettiva indotta dalla persistenza della patologia la cui incidenza opera alla luce delle superiori considerazioni circa l’adeguamento del risarcimento all’aspettativa di vita in soggetto anziano e malato”.
I principi di diritto finali
In conclusione la Suprema Corte ha pronunciato i seguenti principi di diritto. “In tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole, l’incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare o con la guarigione (con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo) o con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute o, ancora, con la morte.
Una volta avvenuto l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (la stabilizzazione), spetta il risarcimento del danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico, il quale va liquidato come invalidità permanente, utilizzando il criterio equitativo puro o le apposite tabelle.
La determinazione del danno biologico da invalidità permanente deve avvenire alla luce delle concrete condizioni di salute del singolo e del periodo di sopravvivenza prevedibile in relazione alla patologia diagnosticata, dovendosi tenere conto, però, che, qualora lo stato di invalidità del soggetto trovi espressione nei gradi percentuali definiti per ciascuna patologia dai barèmes elaborati dalla comunità scientifica ed utilizzati in medicina legale, tali barèmes considerano, nella scala dei gradi di invalidità, il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire, anche a distanza di tempo , una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso.
Nell’eventualità, pertanto, che la liquidazione di siffatto danno avvenga tramite tabelle che non valutano la concreta minore speranza di vita del soggetto leso ovvero sulla base di una consulenza tecnica che da tale minore speranza prescinda, il giudice deve maggiorare detta liquidazione in via equitativa”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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