Il termine di prescrizione del credito risarcitorio relativo ai danni, subiti nella fase di vita prenatale, a causa dell’assunzione di farmaci ad effetti teratogeni da parte della gestante, decorre, di regola, dalla presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo di cui all’’articolo 1 della legge 29 ottobre”, e non dunque da quando controparte (nello specifico il Ministero della Salute) sospetti o ipotizzi che il danneggiato possa aver raggiunto la consapevolezza del nesso causale tra l’assunzione del farmaco e la propria condizione di disabilità o menomazione. A meno non venga fornita una chiara prova che tale consapevolezza sia in effetti maturata in epoca anteriore.
E’ un principio generale basilare a tutela di coloro, e non sono pochi, che hanno subito, appunto, gravi fisici danni permanenti a causa dell’assunzione, durante la gestazione, da parte della mamma di medicinali risultati poi potenziali cause do anomalie e malformazioni nell’embrione, quello affermato dalla Cassazione, terza sezione Civile, con la sentenza n. 2375/24 depositata il 24 gennaio 2024.
Indice
Un uomo, nato focomelico a causa del “Talidomide” cita il Ministero della Salute
La vicenda. Un uomo aveva citato in giudizio avanti il Tribunale di Torino il Ministero della Salute chiedendo il ristoro di tutti i danni conseguenti all’assunzione, da parte della madre durante la sua gestazione, del “Talidomide”, un farmaco vendutissimo e molto usato negli anni Sessanta, tra le altre cose, proprio per prevenire la nausea delle donne in gravidanza ma che poi si scoprì avere gravi effetti teratogeni provocando difetti e malformazioni fetali: sarebbe “responsabile” della nascita di oltre diecimila bambini gravemente malformati, con anomalie cardiache e problemi cerebrali. Nello specifico, il dante causa era nato focomelico.
Domanda accolta dal Tribunale di Torino
Costituitosi in giudizio, il Ministero della Salite aveva eccepito, tra l’altro, l’intervenuta prescrizione del diritto azionato, eccezione che tuttavia i giudici di primo grado avevano rigettato, disponendo, contestualmente, di dare corso all’istruttoria anche mediante lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio e, istruita la causa, nel 2018 la domanda risarcitoria alla fine era stata accolta, con la condanna del Ministero a liquidare a favore del danneggiato la somma di 319mila euro.
La Corte d’appello però riforma la decisione ritenendo prescritto il diritto
Ministero che tuttavia aveva appellato la decisione e la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 2019, ne aveva accolto il gravame ribaltando il verdetto di prime cure e dichiarando prescritto, per decorso del termine ex art. 2947 cod. civ., il diritto al risarcimento del danno subito in conseguenza della somministrazione, durante la vita prenatale, del farmaco “Talidomide”.
Il danneggiato non poteva non aver saputo prima della causa della menomazione
La corte territoriale era giunta a tale esito, disattendendo la tesi del primo giudice che aveva individuato il “dies a quo” del termine prescrizionale nella data di presentazione della domanda di indennizzo, sul rilievo che, per citare la sentenza, fosse “inverosimile o estremamente improbabile che nessun pediatra o medico di base” avesse indicato ai suoi genitori, nonché, successivamente, “al medesimo paziente divenuto maggiorenne“, la “possibile causa della sua peculiare infermità“. E ciò in considerazione del fatto che, appena tre anni dopo la sua nascita (nel luglio 1962), con una serie di decreti ministeriali, il Ministero della Sanità aveva ritirato dal commercio i farmaci contenenti Talidomide. Di conseguenza, “pur non sussistendo alcuna ipotesi di sospensione della prescrizione determinata dalla minore età“, il giudice di seconde cure aveva ritenuto che il “dies a quo” del termine di prescrizione potesse farsi decorrere “dal compimento della maggiore età da parte dell’interessato, successiva al 1974, anno in cui risultava formalizzata la diagnosi di focomelia daIla Cmo”, la Commissione medica ospedaliera.
Il danneggiato ricorre per Cassazione, rileva la consapevolezza del nesso causale
Il danneggiato tuttavia non si è dato per vinto e ha proposto ricorso per Cassazione censurando la sentenza impugnata per aver individuato il “dies a quo” della prescrizione quinquennale, a suo dire erroneamente, nel momento in cui egli ebbe conoscenza della malattia e non già della riconducibilità causale dell’evento dannoso alla assunzione del farmaco dagli effetti teratogeni, E citava a sostegno della sua tesi il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale ciò che rileva è il momento della conoscenza in capo al danneggiato – o quanto meno della percezione – che la propria infermità sia imputabile ad un comportamento illecito di un terzo, e non quello in cui il danno si è prodotto e/o manifestato all’esterno. Affermazione, questa, ribadita dalla Cassazione anche e proprio con riferimento ai danni scaturiti dall’avvenuta somministrazione di farmaci a base di Talidomide, con la sentenza n. 10515/20.
Nessuna prova che egli potesse ricondurre prima la malformazione al farmaco
Inoltre il ricorrente contestava la sentenza per aver operato, sempre ai fini dell’individuazione del cosiddetto “exordium praescriptionis“, una “non meglio precisata praesumptio praesumptionis“. E ciò presumendo, per un verso, che ai suoi genitori fosse stata necessariamente prospettata la riconducibilità causale della malformazione del figlio all’assunzione del Talidomide, così finendo per l’attribuire loro, che erano “contadini senza scolarizzazione”, una “conoscenza qualificata” circa gli effetti teratogeni di tale agente immunomodulatore.
Di tale conoscenza, ha rimarcato il danneggiato, all’epoca, era invece privo persino il Ministero, dato che la commercializzazione di farmaci contenenti tale sostanza si era protratta anche dopo l’adozione dei decreti ministeriali di ritiro degli stessi dal commercio. Presunzione che, lamentava sempre il ricorrente, era stata estesa anche a lui stesso ritenendo che egli, con il raggiungimento, nel 1974, della maggiore età, nonché per il fatto che prima di tale anno fosse già stata formalizzata, dalla commissione medico ospedaliera, la diagnosi di focomelia, dovesse essere a conoscenza della eziopatogenesi della propria infermità.
E il tutto, infine, senza contare la circostanza, anch’essa, stigmatizzata nel citato arresto della Suprema Corte, che non era consentito, alla sentenza impugnata, indurre la “notorietà” della dannosità del Talidomide dall’avvenuto ritiro dal commercio dei farmaci in cui esso risultava presente, dato che nella nozione di “fatto rientrante nella comune esperienza” di cui all’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., “non possono includersi quelle valutazioni che, per essere formulate, necessitino di un apprezzamento tecnico, da acquisirsi mediante CTU o mezzi cognitivi peritali analoghi”.
La Cassazione accoglie la doglianza e spiega da quando decorre la prescrizione
Doglianza ritenuta del tutto fondata dalla Suprema Corte che, spiegano gli Ermellini, in relazione all’exordium praescriptionis, “ha esteso ai danni conseguenti alla somministra zione di farmaci contenente Talidomide gli stessi principi enunciati con riferimento ai danni da emotrasfusione di sangue infetto”.
La malattia va percepita come danno ingiusto conseguente a un determinato fatto
Dunque, “anche per il danno da somministrazione di un farmaco senza adeguati controlli sulle potenzialità di produrre effetti collaterali dannosi per la salute“, vale l’affermazione per cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre “non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche da apprezzarsi in riferimento al sanitario o alla struttura sanitaria cui si è rivolto il paziente“, occorrendo, in particolare, “accertare se siano state fornite informazioni atte a consentire all’interessato il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze”.
Il termine de quo della prescrizione decorre dalla presentazione della domanda
L’equiparazione tra le due fattispecie, pertanto, porta la Suprema Corte a ritenere che, anche nel presente caso, il termine di inizio delle prescrizione “coincida con la presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo (nella specie, previsto dall’art. 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229), spettando alla controparte dimostrare, anche attraverso il ricorso a prova presuntiva, che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale all’assunzione del farmaco”.
Purché non si provi la pregressa conoscibilità della causa della malformazione
E del resto, osservano i giudici del Palazzaccio, è proprio questa la premessa da cui pure era partita anche la impugnata, “sebbene, poi, essa abbia ritenuto provata, sulla base di un ragionamento presuntivo non corretto (diversamente da quanto reputa la difesa statale), la pregressa conoscenza, o meglio, conoscibilità, da parte dell’interessato, rispetto al momento della presentazione della domanda di liquidazione dell’indennizzo, dell’efficienza causale dell’assunzione del farmaco rispetto alla propria disabilità”.
La Corte piemontese, infatti, rileva la Cassazione, come già visto, ha reputato “inverosimile o estremamente improbabile che nessun pediatra o medico di base avesse indicato ai familiari del danneggiato, nonché in seguito aL medesimo paziente divenuto maggiorenne, la possibile causa della sua peculiare infermità, facendo risalire, in ogni caso, almeno al 1974, anno in cui risulta formalizzata la diagnosi di focomelia dalla CMO, la conoscenza della eziopatogenesi dell’infermità”.
Le mere congetture non sono sufficienti, occorrono fatti certi
In questo modo, però, i giudici di seconde cure, obietta la Cassazione, “formulando mere ipotesi congetturali, sfornite di qualsivoglia base fattuale, ha disatteso il principio secondo cui una simile prova presuntiva, proprio perché destinata a contraddire un fatto storico obiettivo (la presentazione della domanda di indennizzo), si deve fondare su fatti certi, ovvero, si deve dedurre da questi sulla base di massime d’esperienza o dell’id quod plerumque accidit, non potendo tale presunzione consistere in una congettura, o meglio in una mera supposizione, ciò che si verifica, appunto, quando la presunzione si fondi su fatti incerti e venga dedotta da questi in via di semplice ipotesi”; in altri termini occorre che il fatto noto dal quale risalire a quello ignoto sia circostanza obiettivamente certa e non mera ipotesi o congettura, pena la violazione del divieto del ricorso alle praesumptiones de praesumpto”.
Il ricorso è stato pertanto accolto dalla Suprema Corte, con rinvio alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, per la decisione nel merito, per la quale i giudici territoriali dovranno tenere conto del principio di diritto riaffermato con l’occasione dagli Ermellini: “il termine di prescrizione del credito risarcitorio relativo ai danni, subiti nella fase di vita prenatale a causa dell’assunzione di farmaci ad effetti teratogeni da parte della gestante, decorre, di regola, dalla presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo di cui all’art. 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229, salvo prova, di cui è onerato il convenuto, da fornirsi anche in via presuntiva, che la consapevolezza, in capo al danneggiato, del nesso causale tra l’assunzione del farmaco e la propria condizione di disabilità e/o menomazione non sia maturata in epoca anteriore“.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
Vedi profilo →
Categoria:
MalasanitàCondividi
Affidati aStudio3A
Nessun anticipo spese, pagamento solo a risarcimento avvenuto.
Articoli correlati