Nel definire il risarcimento del danno “iure proprio” richiesto dai familiari della vittima di un incidente stradale, l’idoneità della condotta colposa di quest’ultimo, nello specifico il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza, a contribuire alla concausazione del danno stesso, e quindi a ridurre il quantum risarcitorio, deve essere apprezzata non fine a se stessa, ma verificando l’effettiva incidenza avuta sull’evento morte dalla trasgressione della regola cautelare. E’ questo il principio riaffermato nell’interessante sentenza n. 34625/23 depositata dalla Cassazione, terza sezione Civile, il 12 dicembre 2023.
La causa per il risarcimento dei danni dei familiari di una vittima della strada
Un uomo era rimasto vittima di un tragico sinistro stradale avvenuto il 31 marzo 2007 e causato dal conducente di un veicolo che peraltro guidava in stato di ebbrezza. Nel giudizio penale era stata accertata la responsabilità dell’investitore per omicidio colposo e riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede a favore dei suoi congiunti, che avevano quindi citato in giudizio civile avanti il Tribunale di Bologna il guidatore del mezzo, le due comproprietarie e l’assicurazione. Il giudice, accertata l’esclusiva responsabilità del sinistro in capo al conducente del mezzo antagonista, lo aveva condannato, in solido con la compagnia assicurativa, a risarcire il danno “iure proprio” subito dai congiunti del deceduto, e non però anche quello tanatologico fatto valere dagli stessi “iure hereditatis”.
In appello liquidazione ridotta per concorso di colpa della vittima per non aver messo le cinture
La sentenza era stata appellata sia in via principale dalla compagnia sia, in via incidentale, dai familiari della vittime, e con sentenza del 14 giugno 2021 la Corte d’appello di Bologna aveva accolto il gravame dell’assicurazione, ritenendo sussistente il concorso di colpa del defunto, nella misura del 20%, nella causazione del sinistro stradale in cui egli aveva perso la vita, rideterminando, per l’effetto, le somme riconosciute ai suoi congiunti a titolo di danno da perdita del rapporto parentale.
I congiunti ricorrono per Cassazione sostenendo che la violazione non aveva inciso su decesso
I parenti della vittima hanno quindi proposto ricorso anche per Cassazione e con il primo motivo hanno denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 2054, comma 1, cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ravvisato il concorso di colpa, nella misura del 20 per cento, della vittima del sinistro, dando rilievo alla violazione, da parte dello stesso, dell’art. 172 cod. strada, ovvero il mancato uso della cintura di sicurezza, che però sarebbe stato del tutto ininfluente sulla dinamica del sinistro, secondo i ricorrenti, essendo il decesso avvenuto per sfondamento toracico come accertato dalla consulenza tecnica svolta dal Pubblico Ministero in sede penale, documento ritenuto dal giudice civile di appello del tutto idoneo all’accertamento dei fatti di causa, tanto da valutare, per citare la sentemza, “superflue le istanze di rimessione in istruttoria formulate dall’appellante principale”, nonché essendosi sostanziate “le deformazioni strutturali riportate dall’autovettura del danneggiante a seguito dell’urto (…) in una contrazione dell’abitacolo che ha reso inevitabile la compressione del torace da parte del volante dell’auto”. L’una come l’altra circostanza, pertanto, avrebbero chiaramente evidenziato che “l’evento morte si sarebbe realizzato con altissima probabilità anche qualora il conducente avesse regolarmente allacciato la cintura di sicurezza”.
La Suprema Corte accoglie la doglianza
Motivo assolutamente fondato secondo la Suprema Corte, che ha ricostruito innanzitutto la vicenda processuale ricordando appunto come, in relazione al “thema decidendum”, fosse intervenuto in appello, in parziale riforma della sentenza resa in prime cure, il riconoscimento della “concausazione” del danno, in una misura stimata del 20 per cemto, da parte della stessa vittima, in ragione dell’inosservanza dell’obbligo di indossare la cintura di sicurezza.
Nel pervenire a tale conclusione – sulla base di un ragionamento viziato, però, da un non corretto “modus operandi” come meglio si dirà più avanti – la sentenza impugnata, spiegano gli Ermellini, si è uniformata, in via di premessa, all’orientamento di legittimità secondo cui “il risarcimento del danno patito iure proprio dai congiunti di persona deceduta per colpa altrui deve essere ridotto in misura corrispondente alla percentuale di colpa ascrivibile alla stessa vittima dell’illecito”.
E spiega la natura della “concausa colposa” da parte della vittima del danno patito
Si tratta, peraltro, prosegue la Cassazione, di un indirizzo che trova fondamento nell’art. 1227, comma 1, cod. civ., sebbene il richiamo a tale norma “debba essere inteso non in termini sussuntivi, posto che li congiunto del danneggiato che agisce iure proprio non è equiparabile al creditore che ha concorso a cagionare li danno con il proprio fatto colposo (il fatto colposo è del danneggiato, non del congiunto)”, sicché ciò “che trova applicazione è il principio di causalità, di cui l’art. 1227 rappresenta li corollario, in base al quale al danneggiante non può farsi carico di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile, secondo il paradigma della causalità del diritto civile, la quale conferisce rilevanza alla concausa umana colposa”.
E’, tuttavia, proprio il carattere “colposo” della condotta della vittima del sinistro a porsi come presupposto necessario affinché essa possa essere apprezzata come “concausa” del danno patito, “iure proprio”, dai suoi congiunti. Difatti, mentre in ambito penale vige la regola dell’irrilevanza delle cause concorrenti, nel senso che esse non sono idonee ad escludere la responsabilità dell’autore dell’illecito (art. 41, comma 1, cod. pen.), giacché “la causalità penale è orientata nella direzione dell’evento”, la causalità civile, per contro, “guarda al danno, da cui l’incidenza della concausa umana colposa”.
In questo quadro, pertanto, “la colpa, cui fa riferimento li primo comma dell’art. 1227, va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché li soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 cod. civ.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato”, ovvero “come criterio di selezione delle concause rilevanti ai fini della riduzione del risarcimento“, giacché “la concausa umana rilevante” è soltanto “quella colposa, dovendosi derubricare quella non colposa a concausa naturale”, con al conseguenza che quest’ultima “non giustifica una riduzione, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, cod. civ., del risarcimento dovuto dal danneggiante”.
D’altra parte, espressione “del medesimo principio causalistico è la previsione del regresso fra responsabili solidali in base alla gravità della colpa e all’entità delle conseguenze che ne sono derivate, di cui all’art. 2055, comma 2, cod. civ.”, sicché tale norma e quella di cui all’art. 1227, comma 1, cod. civ. “compongono così un unitario sistema di rilevanza nella causalità di diritto civile della concausa umana colposa”, in base al quale il “cagionare” un evento dannoso, nella disciplina della responsabilità extracontrattuale, “non può essere inteso in termini puramente naturalistici, ma subisce l’intervento del principio normativo di rilevanza della concausa umana colposa” espresso, appunto, da tale plesso normativo e implicante “il frazionamento della responsabilità secondo l’efficienza dei singoli apporti”.
Da quanto precede deriva che la “diminuzione del risarcimento del danno patito iure proprio dai congiunti di persona deceduta per colpa altrui, in presenza di fatto colposo del deceduto, trova pertanto fondamento normativo direttamente nella disciplina del fatto illecito, ed in particolare nell’art. 2054 per l’ipotesi della circolazione stradale, dovendo il «cagionare» o il «produrre il danno» essere intesi in termini parziali laddove concorra la concausa umana colposa, sulla base di una lettura unitaria del complesso normativo derivante dagli artt. 1227, comma 1, 2054 e 2055, comma 2, cod. civ.”.
Si è visto, dunque, come sia il carattere “colposo” della condotta della vittima del sinistro a porsi quale presupposto necessario affinché essa possa ritenersi “concausa” – in una misura percentuale che spetta al giudice di merito stabilire, sulla base di un accertamento di fatto che resta sottratto al sindacato di legittimità, sempre che sia “caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico giuridico” – del danno subito, “iure proprio”, dai suoi congiunti.
Ma non basta la violazione, va accertato se essa abbia davvero inciso sull’eziologia del sinistro
Tanto premesso, tuttavia, la Cassazione viene al dunque precisando anche che, affinché possa dirsi che tale contegno “colposo” abbia effettivamente concorso alla “causazione” di tale tipologia di pregiudizio, occorre, pur sempre, accertare che “la colpa ascrivibile alla vittima del sinistro non si sostanzi nella mera trasgressione di una regola cautelare (generica o – come nella specie – specifica) alla cui osservanza il medesimo risultava tenuto, ma che tale violazione abbia effettivamente inciso nell’eziologia del sinistro rivelatosi mortale. Evenienza da ritenersi integrata solo quando l’evento morte costituisca la concretizzazione di quello specifico rischio che l’osservanza di quella regola cautelare tendeva, appunto, a neutralizzare”.
Nel valutare tale profilo, aggiungono gli Ermellini, il giudice di merito dovrà guardarsi dal rischio “di confondere impropriamente (segnatamente sul piano linguistico-concettuale, e dunque sul terreno operativo) le prospettive di valutazione concernenti, da un lato, l’accertamento del nesso di causalità”, e, dall’altro, l’accertamento della colpa” dello stesso soggetto.
Difatti, se “la prima indagine (quella sul nesso di causalità nell’ambito della responsabilità civile) deve ritenersi necessariamente affidata, nell’individuazione dello standard probatorio della relazione causale investigata, al criterio del «più probabile che non»”, l’altra indagine, ovvero quello sulla colpa, “attiene invece alla valutazione dell’attendibilità degli elementi probatori utilizzati ai fini della ricostruzione del comportamento” esaminato, e in particolare “alla correttezza dell’inferenza critica che, sul piano logico, autorizza l’affermazione della concreta sussistenza di un determinato fatto ignorato (il comportamento difforme dalla regola cautelare) quale conseguenza logicamente attribuibile alla preliminare verificazione di fatti certi”.
Nello specifico il mancato uso delle cinture non aveva influito sul decesso
Fatta applicazione di tali principi al caso di specie, vanno a concludere i giudici del Palazzaccio, la Corte d’appello felsinea “si è “appagata” della mera verifica dell’inosservanza, da parte del defunto dell’obbligo di indossare la cintura di sicurezza (sancito dall’art. 172 cod. strada), senza, invece, indagarne l’effettiva incidenza che tale violazione ha determinato nella verificazione del sinistro, e ciò attraverso la necessaria “valutazione dell’attendibilità degli elementi probatori utilizzati”.
Nella specie, infatti, prosegue la Cassazione, “non è in discussione che l’accertamento di fatto, già compiuto in sede penale dal consulente del Pubblico Ministero, sia stato assunto a riferimento della valutazione della dinamica del sinistro, se è vero che il giudice di appello – a fronte delle risultanze di tale documento – ha ritenuto superflue le istanze di rimessione in istruttoria formulate dall’appellante principale”.
Tuttavia, rileva la Suprema Corte, poiché tali risultanze avevano ben evidenziato che “le deformazioni strutturali riportate dall’autovettura del danneggiante a seguito dell’urto” ebbero a sostanziarsi “in una contrazione dell’abitacolo che ha reso inevitabile la compressione del torace da parte del volante dell’auto”, l’esito di tale indagine tecnica è stata nel senso che “l’evento morte si sarebbe realizzato con altissima probabilità anche qualora il conducente avesse regolarmente allacciato la cintura di sicurezza”.
Ma nonostante ciò, pur muovendo da tale ricostruzione di fatto, la Corte felsinea è giunta egualmente alla conclusione che la condotta del defunto potesse intendersi come concausa “colposa, nel senso in precedenza già chiarito, dei danni patiti “iure proprio” dai suoi congiunti, “esito, questo, che stride con il giudizio di fatto da essa assunto a presupposto del giudizio di diritto che essa era chiamata a compiere”.
In questo modo, pertanto, tira le fila del discorso la Cassazione, “risulta integrata la violazione dell’art. 2054 cod. civ. lamentata dai ricorrenti, essendo il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. sussistente quando li giudice di merito” – dopo avere individuato e ricostruito, “sulla base delle allegazioni e delle prove offerte dalle parti e comunque all’esito dello svolgimento dell’istruzione cui ha proceduto, la «quaestio facti», cioè i termini ed il modo di essere della c.d. fattispecie concreta dedotta in giudizio” – tragga da essa conseguenze giuridiche erronee. Infatti, in un simile caso, “la valutazione cosi effettuata dal giudice di merito e la relativa motivazione, non inerendo più all’attività di ricostruzione della «quaestio facti» e, dunque, all’apprezzamento dei fatti storici in funzione di essa” (apprezzamento, nel caso di specie, indiscusso, visto che il giudice di appello aveva ritenuto superflua ogni ulteriore indagine, rispetto a quella condotta dai consulenti tecnici del Pubblico Ministero in sede penale), “bensì all’attività di qualificazione «in iure» della «questio» per come ricostruita, risulta espressione di un vero e proprio giudizio normativo”, sicché “il relativo ragionamento” da esso operato, “connotandosi come ragionamento giuridico, è controllabile e deve essere controllato dalla Corte di Cassazione nell’ambito del paradigma del n. 3) dell’art. 360 cod. proc. civ.”.
Il principio di diritto
Il primo motivo di ricorso è stato quindi accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione per la decisione nel merito, da compiersi sulla base del principio di diritto pronunciato per l’occasione dalla Cassazione: “in caso di domanda di risarcimento del danno «iure proprio» proposta dai congiunti della vittima di un sinistro stradale mortale, l’idoneità della condotta colposa dell’ucciso a contribuire alla concausazione del danno deve essere apprezzata verificando, sulla base degli elementi probatori assunti a presupposto del giudizio fatto, l’effettiva incidenza avuta sull’evento morte dalla trasgressione della regola cautelare – generica o specifica – allo stesso ascritta“.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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