Il Comune è responsabile dei rumori molesti prodotti dagli avventori dei pubblici esercizi che si trattengono fuori dai locali, in strada, fino a tardi, problema molto sentito nei centri storici, soprattutto nei mesi estivi: i cittadini che li subiscono possono quindi agire contro l’amministrazione comunale per richiederne l’intervento e anche il risarcimento dei danni patiti, in nome del “sacrosanto” principio del “neminem laedere”. E’ una sentenza di estrema rilevanza quella pronunciata dalla Cassazione, la n. 14209/23 depositata il 23 maggio 2023, su uno dei tantissimi casi sul genere.
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Coppia cita per danni per rumori molesti da “movida” il Comune
La vicenda. Due coniugi avevano citato in causa un comune del Bresciano ritenendolo responsabile delle immissioni sonore a cui era sottoposta la loro abitazione e prodotte dagli avventori degli esercizi commerciali ubicati nei pressi che, nei fine settimana, si trattenevano in strada fino a tarda ora, e anche oltre l’orario di chiusura delle attività, recando disturbo alla quiete pubblica. I danneggiati avevano chiesto che fosse accertata l’intollerabilità dei rumori provenienti da questa strada comunale del centro e che fosse, appunto, condannato il Comune, ex art. 844 del codice civile, a far cessare immediatamente queste immissioni o ad attuare tutte le misure necessarie per ricondurle alla normale tollerabilità, oltre che al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.
Il tribunale di Brescia aveva accolto le richieste condannando l’Amministrazione comunale a far cessare, per l’appunto, le immissioni di rumore nella proprietà della coppia o ad adottare tutte le cautele atte a contenerle entro i limiti di una normale tollerabilità, attraverso la predisposizione di un servizio di vigilanza, organizzato per tutte le sere, dal giovedì alla domenica, dai mesi di maggio ad ottobre, con impiego di agenti comunali che si adoperassero, entro la mezzora successiva alla scadenza dell’orario di chiusura dei pubblici esercizi, a far disperdere e allontanare dalla strada comunale le persone che vi stazionavano e facevano chiasso. I giudici avevano altresì condannato il Comune a liquidare ventimila euro a ciascuno dei due residenti che avevano promosso la causa a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale e ulteriori 9.049 euro a titolo di danno patrimoniale.
In appello il verdetto viene capovolto, il Comune non avrebbe avuto titolo per intervenire
Il Comune, tuttavia, aveva appellato l’ordinanza e la Corte d’Appello bresciana, con sentenza del 2020, aveva accolto il gravame riformando totalmente la decisione di prime cure e quindi rigettando la richiesta dei cittadini. La Corte territoriale, a fondamento della propria decisione, aveva osservato che, sì, l’art. 844 c.c. trovava applicazione anche nei confronti della pubblica amministrazione, i cui provvedimenti non potevano affievolire il diritto alla salute, così da radicare davanti al giudice ordinario la giurisdizione sulle cause in materia, ma che tuttavia, nel caso di specie, “l’utilizzo della strada quale bene di cui l’ente locale è proprietario” per citare la sentenza, “non avveniva da parte degli avventori dei locali pubblici, nell’ambito di un provvedimento ampliativo concessorio“, ma la presenza dei locali costituiva “l’occasione per gli assembramenti molesti“, laddove, poi, “il potere-dovere di intervenire in capo all’ente locale non poteva essere riferito a un generico dovere di tutelare la quiete pubblica ma va ancorato a precise disposizioni di legge per non sfociare in attività arbitrarie“. Perciò, secondo i giudici territoriali, perché si configurasse una responsabilità omissiva non era sufficiente il richiamo all’art. 844 c.c., ma era necessario “ancorare l’obbligo di intervenire a una disposizione di legge che imponga il controllo sull’utilizzo della strada al fine di evitare schiamazzi notturni“, e in tal senso “nessuna delle fonti indicate dagli appellati era idonea allo scopo“.
Secondo la Corte d’appello non sarebbe stato efficace a sostenere le loro tesi né il richiamo a una sentenza del Tar della Lombardia, sezione di Brescia (la numero 1255/2017), “priva di un intelligibile riferimento a determinata normativa”, né quello alle norme del codice della strada, “la cui finalità è solo quella della sicurezza della circolazione dei veicoli”, né quello alle norme in materia di sicurezza e ordine pubblico, “che intestano tali compiti allo Stato e non all’ente locale, se non per circostanze eccezionali, non ricorrenti nel caso del Comune in questione”, e neppure quello all’articolo 54 del d.lgs n. 267/2000, “non essendo nella specie contestato l’uso del potere di regolamentazione degli orari da parte del sindaco, bensì la mancata adozione di provvedimenti concreti per rendere effettiva l’osservanza di ordinanze emesse, non potendo configurarsi un obbligo del Comune, e in particolare del sindaco quale ufficiale di governo, di dare esecuzione coattiva alle proprie ordinanze”.
E in ogni caso, secondo la Corte d’Appello, non sussisteva la “giurisdizione del giudice ordinario a conoscere di cause simili“, poiché non era consentito al giudice stesso “di disporre l’effettuazione di un pubblico servizio, arrivando addirittura a dettarne le modalità esecutive, pena la violazione dei principi stessi sul riparto di giurisdizione previsti dall’art. 113 Cost. e dall’art. 4 della legge 2248/1865 allegato E”, laddove un “diverso argomentare porterebbe il giudice ordinario semplicemente a sostituirsi all’autorità locale in un caso in cui alcuna norma consente tal sorta di operazione e in violazione del principio costituzionale della separazione dei poteri“.
I coniugi ricorrono per Cassazione battendo sul principio del “neminem laedere”
A questo punto, la coppia ha quindi proposto ricorso per Cassazione lamentando tra le altre cose la violazione dell’art. 113 della Costituzione ed il fatto che la Corte territoriale avesse escluso, in contrasto anche con la giurisprudenza di legittimità, la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia avente per oggetto la domanda di condanna della pubblica amministrazione a provvedere, con tutte le misure adeguate, all’eliminazione o alla riduzione nei limiti della soglia di tollerabilità delle emissioni nocive, oltre che al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, dato che l’inosservanza da parte della Pa delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può ben essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario, non solo per conseguire la condanna dell’amministrazione pubblica al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere. Anche perché questa domanda non investiva scelte ed atti autoritativi della Pa, ma un’attività soggetta al principio del “neminem laedere“.
Inoltre, i ricorrenti si dolevano del fatto che la Corte territoriale avesse, erroneamente a loro dire, ritenuto necessario ancorare l’intervento del Comune, per poterne configurare una responsabilità omissiva in relazione all’obbligo di far cessare le immissioni nocive, ad una “disposizione di legge che imponga il controllo sull’utilizzo della strada al fine di evitare schiamazzi notturni“, per riproporre un passo della sentenza impugnata, senza considerare che tale responsabilità poteva ritenersi sussistente già in forza delle norme sopra indicate, poiché “l’attività della Pa, anche nel campo della discrezionalità tecnica, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dal divieto di neminem laedere, essendo fonte di responsabilità, specie qualora emergano gravi pregiudizi per i beni primari della salute e della proprietà privata, che gli enti hanno il compito istituzionale di tutelare” per citare uno dei passi chiave del ricorso. E qui i due coniugi richiamavano numerose norme a tutela della quiete pubblica che prevedevano specifici compiti a carico degli enti locali, sia di carattere nazionale che regionale e comunale.
La Cassazione ha dato loro ragione. Innanzitutto gli Ermellini chiariscono che la Corte territoriale “non ha declinato la propria giurisdizione sulle domande proposte dai coniugi, ossia la condanna del Comune a far cessare, ex art. 844 c.c., le immissioni intollerabili provenienti dalla strada in cui si trovava la loro abitazione, nonché la condanna del Comune stesso al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali patiti”, ma ha ritenuto, per un verso, “che la titolarità passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio non spettasse al Comune in assenza di norme specifiche che ne imponessero l’obbligo di un puntuale intervento al riguardo, che non si riducesse al mero dovere di assicurare la quiete pubblica” e, per altro verso, “ha comunque escluso che le pretese azionate dagli attori potessero radicare un potere del giudice ordinario di determinare le modalità di intervento della Pa, esorbitando le stesse dai limiti interni della giurisdizione ad esso spettante, in forza del combinato disposto degli artt. 113 Cost. e 4 della legge n. 2248/1865 all. E”. Di qui dunque la declaratoria di rigetto delle pretese dei ricorrenti.
La tutela del privato da una lesione del diritto alla salute trova fondamento anche verso la PA
Chiarito questo, tuttavia, secondo la Cassazione la premessa da cui muove la Corte territoriale è errata, “poiché la tutela del privato che lamenti la lesione, anzitutto, del diritto alla salute, costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (art. 32 Cost.), ma anche del diritto alla vita familiare, convenzionalmente garantito (art. 8 CEDU), e della stessa proprietà (che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento” – lesione “cagionata dalle immissioni (nello specifico acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica, nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria” -, “trova fondamento anche nei confronti della P.A., anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi”.
La Suprema Corte ribadisce con forza, infatti, che la stessa Pubblica Amministrazione è tenuta “ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere, con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l’appunto, un’attività soggetta al principio del neminem laedere”.
Le domande risarcitorie e inibitorie non esorbitano dai poteri del giudice ordinario
Ne consegue pertanto, secondo i giudici del Palazzaccio, la titolarità dal lato passivo del Comune a fronte delle domande, risarcitoria e inibitoria, proposte dai residenti a fronte del “vulnus” che le immissioni contestate sono idonee a cagionare ai diritti vantati. Fissato questo diverso paletto, per gli Ermellini è errata anche la decisione della Corte territoriale di ritenere, di per sé, infondate le domande dei due coniugi in quanto esorbitanti dai limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario. “Anzitutto – prosegue la Cassazione -, la domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dagli attori in conseguenza delle immissioni acustiche intollerabili, non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede solo la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato”.
Anche la domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili, va a concludere la Suprema Corte, “non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dall’art. 4, comma 2, della legge 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali”. Pertanto la circostanza che il giudice di primo grado avesse predeterminato il “facere” del Comune imponendogli determinati comportamenti “implicanti l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi”, come l’effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative, “non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dai ricorrenti che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati. Il ricorso dei due coniugi è stato pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, che dovrà rivalutare la causa attenendosi però ai principi riaffermati dalla Cassazione.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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Categoria:
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