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Si possono installare telecamere nella propria attività, nello specifico un pubblico esercizio, senza aver prima sancito un accordo con i sindacati, essendo vietato l’uso degli impianti audiovisivi o di altre apparecchiature per il controllo a distanza dei lavoratori? Sì se l’azienda attesta di non avere alcun dipendente. Con la sentenza n. 46188/23 depositata il 16 novembre 2023 la Cassazione ha affrontato una questione assai delicata e di attualità, la tutela della privacy con particolare riferimento all’ambito lavorativo.

Titolare di un bar multata per aver installato telecamere senza l’accordo con i sindacati

Il tribunale di Messina, con sentenza dell’aprile 2022, aveva dichiarato la penale responsabilità della titolare di un bar per il reato di cui all’art. 4 legge n. 300 del 1970, ossia lo Statuto dei Lavoratori, e l’aveva condannata a pagare un’ammenda di tre mila euro. Alla commerciante, secondo quanto ricostruito dall’inchiesta, veniva imputato di aver installato nel 2018 nel suo esercizio un impianto video-sorveglianza senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge, in violazione appunto del citato articolo di legge, che recita: “E’ vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, che possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.

L’imprenditrice ricorre, obiettando di non avere dipendenti, in Cassazione, che le dà ragione

L’imprenditrice ha quindi proposto ricorso per Cassazione contro la decisione denunciando in particolare violazione di legge, con riferimento per l’appunto all’art. 4 della legge n. 300 del 1970, avendo riguardo alla ritenuta configurabilità della fattispecie di reato per la quale era stata pronunciata la condanna. La donna, infatti, ha evidenziato come il giudice non avesse fornito indicazioni su due elementi centrali della fattispecie in questione, in quanto non si dava conto se l’impianto fosse preposto alla registrazione, né se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno, asserendo che invece l’impianto era a circuito chiuso, non implicando alcuna registrazione, e che, soprattutto, la sua azienda non aveva alcun dipendente. La ricorrente ha poi sostenuto che non vi sarebbero stati elementi idonei ad affermare la coscienza e volontà del fatto illecito e che mancava una effettiva valutazione critica della attendibilità del principale teste di accusa, lamentando altresì l’eccessività della pena e la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

 

La presenza di lavoratori nel luogo ripreso è requisito basilare per la configurabilità del reato

La Suprema Corte le ha dato ragione, ritenendo fondato il primo motivo di doglianza, con assorbimento degli altri. Gli Ermellini chiariscono innanzitutto che “la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di video-sorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione. Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dall’art. 15 d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell’art. 4, comma 1, legge 20 maggio 1970, n. 300, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.

Non è configurabile, proseguono i giudici del Palazzaccio, “la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 – tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018 – quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.

Nel caso di specie la sentenza del tribunale non precisava se nel bar lavorassero dei sottoposti

Fatte queste doverose premesse, la Cassazione entra nello specifico convenendo sul fatto che la sentenza impugnata “si presenta lacunosa sotto entrambi i profili. La decisione del Tribunale di Messina, infatti, si limita a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, sebbene in difetto di espressa autorizzazione. La pronuncia, però, non precisa né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di video-sorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.

La sentenza è stata pertanto annullata, con rinvio al tribunale di Messina, in persona di altro giudice, che dovrà accertare se sussiste effettivamente il reato di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970, e 171 d.lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018, verificando in particolare se, nel bar gestito dall’imputata, prestassero servizio lavoratori dipendenti e, se sì, se i dispositivi comportassero un eccessivo controllo sulla loro attività.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Vertenze di Lavoro

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